15602958314_1525ed5a01_k

Charlie e l’arte dei distinguo

Sono stato uno degli estensori dell’editoriale A proposito di Charlie, che è stato sottoscritto e pubblicato anche da Riforma. E ora ho deciso che è venuto il momento di fare outing: le vignette di Charlie Hebdo non mi piacciono. Se ora direste “ecchissenefrega”, replicherei: “Risposta esatta!”. Perché la questione è esattamente questa: nel gran polverone mediatico che è seguito alla tragedia di Parigi, sono rimbalzati sui social un milione di (anche ragionevoli) distinguo a proposito dell’hashtag JesuisCharlie. Io, sì, lo sono ma… Io lo sono, ma sono anche… Io non lo sono… Io lo sono a giorni alterni, come le targhe negli anni Settanta… Io non lo sarò mai. Tutte queste argomentate e spesso condivisibili distinzioni, però, hanno mancato completamente l’obiettivo: il punto non era se ci piacessero le vignette del giornale satirico parigino, ma se la satira – come simbolo apicale della libertà di espressione – sia ancora oggi un “bene pubblico” che ogni democrazia degna di questo nome debba difendere “a prescindere” (come avrebbe detto il principe Antonio De Curtis).

“A prescindere” è fondamentale: a prescindere dalla convenienza politica di questo o quel governo, a prescindere dall’interesse privato di questa o quella grande azienda, a prescindere anche – e qui veniamo a noi – dalla sensibilità religiosa di questa o quella comunità di credenti. Ridere è una cosa seria, ha giustamente ricordato la pastora Lidia Maggi in questo sito. E nel caso di un gruppo religioso, saper ridere di se stessi e saper accettare lo sberleffo altrui – o magari persino la pesante offesa – dà la misura della capacità di un tale gruppo di vivere serenamente in un spazio pubblico plurale, come sono ormai da tempo nei fatti le nostre società. Questo mi pare abbia drammaticamente evidenziato la vicenda di Charlie Hebdo: nonostante la pluralità di confessioni religiose presenti nel nostro Paese, le varie comunità di fede sono ancora lontane da una piena integrazione e dall’accettazione dell’idea che lo spazio pubblico non può essere “mio” o “tuo”, ma “laico”, cioè di tutti. Insomma, altro che storie: la libertà di parola è ancora – e ogni giorno – un diritto da conquistare, specie quando si toccano tematiche sensibili come il Divino. Anche per questo motivo, pur apprezzando in tanti passaggi gli interventi di Guido Vitale su Moked (riportato anche da Riforma) e di rav Giuseppe Laras sul Corriere della Sera, non condivido fino in fondo i loro argomenti. Mi pare infatti che siano comunque figli della logica dei distinguo, che in questo caso rischia di essere un alibi per additare sempre fuori dai propri confini confessionali la necessità dell’autocritica. Certo che esiste e cresce l’antisemitismo, ed è un pericolo che non si denuncerà mai abbastanza! Ma forse che l’islamofobia di certi settori delle nostre società è meno pericoloso? Insomma, se ogni singola comunità di fede non comincia a fare i conti, da se stessa, con i germi di identitarismo e intolleranza che mettono radici al proprio interno, non ne usciremo più.

Ultima questione, i limiti: non esistono forse limiti alla libertà d’espressione? Non esiste un limite, dunque, anche per la satira? Certo che esiste: è il rispetto della legge. Tutto ciò che non è espressamente vietato, è consentito. Ovviamente, a questo punto si aprirebbe un decisivo dibattito pubblico su cosa vuol dire la legge, chi la fa, chi stabilisce che cosa è vietato. E, alla fin fine, la domanda è: quale tipo di laicità vogliamo? Il modello francese? Quello britannico? Quello americano? Si tratta di un tema-chiave per il nostro futuro, troppo importante per aprirlo qui e ora. Ma bisognerà tornarci su.

Foto via Flickr