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Trump e il muro che c’è già

«Una nazione senza frontiere non è una nazione» ha detto il neo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, firmando lo stanziamento dei fondi per la costruzione di una nuova barriera tra Stati Uniti e Messico finalizzata a impedire l’immigrazione.

Eppure, il muro esiste già da diversi anni, fin dalla presidenza di Bill Clinton, tra il 1992 e il 2000, rafforzato dai progetti di controllo delle frontiere come Gatekeeper, Hold-the-Line e Safeguard: la prospettiva di Trump potrebbe essere quello di rafforzare in modo ancora più severo la prevenzione dell’immigrazione clandestina sui confini, e in particolare quello meridionale.

Il pastore valdese di Scicli Francesco Sciotto è arrivato negli Stati Uniti da poco prima dell’insediamento del nuovo presidente e lo abbiamo intervistato per conoscere la percezione di questo cambiamento dall’interno. Nella sua partecipazione al progetto Effee (Esperienza di Formazione e di Fraternità Ecumenica all’Estero), Sciotto si trova nella comunità Good Shepherd di Sahuarita-Green Valley, a una cinquantina di km dal confine messicano: «l’America che sto incontrando in questa comunità vive con grande preoccupazione e con grande ansia la svolta dell’amministrazione per quello che sarà. Sia per il lavoro con i migranti, in cui la comunità è molto impegnata, sia in generale nei linguaggi e nella rinnovata paura nei confronti delle diversità e delle minoranze o dei diritti delle donne». Tra le varie attività, Sciotto partecipa alla distribuzione di cibo nella mensa a Nogales per i migranti che restano bloccati e deportati, e al rifornimento di acqua nel deserto con il gruppo dei Samaritans, vivendo un impegno diaconale quotidiano.

Il muro di Trump spaventa più di quello esistente?

«Il muro esiste già, e c’era anche sotto l’amministrazione di Obama. Noi non riusciamo a comprendere bene la situazione di questa frontiera, molto diversa da quella che viviamo noi nel Mediterraneo. Qui c’è una frontiera reale, che si vede: un enorme muro di metallo in un’area militarizzata. Chi passa è automaticamente un criminale e viene incarcerato, cosa che vale anche per i minori. Nessuno nega che la svolta di Trump sia reale, la preoccupazione è che si precarizzi ancora di più la vita di chi cerca fortuna attraversando il confine, con ancora più incarcerazioni e deportazioni. I muri non hanno mai impedito alle persone di passare; piuttosto, hanno peggiorato la situazione di precarietà e hanno messo a rischio delle vite. 700 chiese statunitensi hanno aderito a un appello per tornare ad essere Sanctuary, che si concretizza nell’essere un rifugio per le persone, in modo che si sentano accolte e aiutate. La vita dei migranti è già difficile oggi: in qualunque momento si può essere presi e deportati in Messico, cosa che riguarda anche chi ha solo transitato da quel paese, come i minori soli che arrivano dal Nicaragua, dal Salvador e dal centro America in generale».

Come reagiscono le chiese locali?

«In modi diversi, a vari livelli. L’intervento diaconale portato dalle comunità è grande. La chiesa in cui mi trovo, che conta circa 500 membri, è molto attiva con un banco alimentare e per esempio ha appoggiato il movimento dei Samaritans volontari che si recano in Messico per aiutare le persone migranti, oppure vanno a portare aiuti nel deserto, come acqua e viveri, in modo che non diventi la loro tomba. Le chiese sono molto attive nella riflessione e anche nell’azione e hanno saputo coniugare l’impegno quotidiano a una predicazione attiva e radiosa che ti spinge ad agire perché sai di essere insieme al Signore mentre lo fai. Un’esperienza bellissima e che dice alle nostre chiese che coniugare l’impegno delle persone attive in chiesa e la predicazione è una cosa possibile e che fa crescere le comunità: domenica abbiamo avuto otto nuovi membri di chiesa. L’America che leggiamo dai giornali è a volte molto diversa da quella che si vive qui».

Possiamo definirla un’esperienza difficile ma ricca?

«Sahuarita offre spazi di riflessione teologica continui, è davvero una comunità incarnata con tutte le sue difficoltà. Anche la liturgia è una novità per me, con un grande impegno musicale e nella partecipazione dei membri, perciò molto interessante. Lontana dalla nostra sensibilità europea, ma viva. In un contesto di protestantesimo maggioritario, qui le chiese sono tantissime e non è raro che le persone che si trasferiscono da una città a un’altra frequentino una chiesa di diversa denominazione. Questo non toglie che ogni comunità, con la sua sensibilità, sia chiesa di Cristo. Questo si percepisce e l’impegno ecumenico è votato soprattutto alla pluralità delle spiritualità».

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