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Le vie e i viaggiatori della fede

Possiamo dare per scontata la necessità dell’uomo di muoversi e spostarsi fisicamente, ma da un punto di vista spirituale, se dobbiamo immaginare dei grandi movimenti, li immaginiamo nel passato, legati al lavoro dei missionari in Africa o Sud America. Per chi è cosciente della propria vitalità spirituale il rapporto con la fede sarà sempre un percorso. Sicuramente lo è per Pawel Gajewski, pastore a Terni e Perugia e professore di Teologia delle religione alla Facoltà Valdese di Teologia di Roma, per cui l’arrivo alla Chiesa valdese è una tappa che ha visto fasi precedenti di incontro con altre comunità e anche di solitudine.

Decidere di “spostarsi” di fede prevede, certo, la consapevolezza di avere una parte spirituale, ma anche la capacità di metterla in discussione. Pawel Gajewski afferma di notare, a volte, un fenomeno molto particolare: una profonda spiritualità di cui la portatrice o il portatore non è consapevole.

In un articolo pubblicato su Riforma si presentava come un viandante della fede. Qual’è stato il suo percorso?

«Vorrei ricordare un dato biblico che per me è molto importante, di cui si parla anche nel libro degli Atti degli apostoli: prima che ci chiamassimo cristiani, prima che diventassimo chiese, Cattolica Romana o evangelica valdese, il nome biblico di quella realtà che noi chiamiamo cristianesimo era ὁδός, via. La parola via fa pensare ad un movimento continuo: il viandante cerca di seguire la, o le vie. Ma per me il cristianesimo, strettamente legato a certa simbologia ebraica, è movimento. L’Esodo, il movimento del popolo verso qualcosa, il movimento del popolo guidato dal suo Dio è un paradigma dal quale non possiamo prescindere.

La mia via potrebbe essere definita come molto semplice, credo che una buona parte dei membri delle chiese metodiste e valdesi in Italia abbia fatto un percorso simile: dalla chiesa cattolica verso la chiesa valdese, scelta come patria spirituale e anche come luogo in cui vivere, perché credo fermamente che l’esperienza di fede sia, sì, individuale, ma per trasformare quell’esperienza in un’energia positiva e creativa, c’è bisogno di una comunità. Di questo parlava Zygmunt Bauman in un suo saggio passato un po’ inosservato, Missing community, oppure in italiano, Voglia di comunità, pubblicato da Laterza».

Questi passaggi, queste migrazioni avvengono, come nel caso di cattolici verso il protestantesimo, in un ambito teologico vicino, ma ci sono fenomeni da rilevare più radicali?

«Assolutamente si. Se ci soffermiamo soltanto sulla situazione italiana, accanto a noi abbiamo l’Unione Buddhista Italiana, un’organizzazione amica con cui personalmente sono in contatto da anni, che è in crescita. Secondo le ultime stime almeno 80.000 italiani sono diventati buddisti in maniera ufficiale, anche se il buddismo non ama molto la formalità, lo stato italiano si. Se contiamo gli aderenti veri e propri scopriamo che i buddisti italiani dell’Unione sono quattro volte più numerosi di noi valdesi e metodisti messi insieme. C’è addirittura chi, come Paul Knitter, un noto teologo che vive e lavora negli Stati Uniti, teorizza addirittura la doppia appartenenza. Il suo libro Senza Buddha non potrei essere cristiano, racconta il suo percorso di fede, dal cattolicesimo al buddismo, abbracciato come unica comunità e unica spiritualità di riferimento che poi, dopo diversi anni, si trasforma in una nuova appartenenza. Knitter chiederà di essere ammesso nella chiesa episcopale negli Stati Uniti, ma senza assolutamente abiurare, negare, abbandonare la sua militanza attiva buddhista. Il suo libro può sicuramente essere messo in discussione ed è bene che sia così, perché il fenomeno si sta diffondendo.

Un altro fenomeno rilevante, che in Italia non è così visibile ma in Francia e al di là del Mediterraneo molto di più, vede l’Islam come comunità di fede in crescita. Le adesioni massicce, non necessariamente estorte con la minaccia, ma spontanee o stimolate da una forma di missione pacifica musulmana, sono oggi un dato di fatto. Non dimentichiamoci che quello che facevano una volta i missionari cristiani, ovvero costruire scuole, strade, ospedali, pozzi, acquedotti, oggi lo fanno operatori sociali o missionari mussulmani».

La domanda spontanea è: a cosa rispondono queste religioni per attrarre tante persone?

«Naturalmente questa è una mia convinzione personale, ma credo che nei vari passaggi e migrazioni spirituali siano da prendere in considerazione alcuni elementi che possono essere definiti in maniera abbastanza chiara. Prima di tutto la complessità dottrinale di una comunità di fede, che anche solo a dirlo è complicato, fa capire che tipo di linguaggio usiamo noi teologi. In poche parole, dove non ci sono impianti dottrinali esagerati, dove ci sono poche cose trasmesse oralmente in maniera chiara, lì si tende ad andare. Questo può essere misurato e valutato con criteri razionali. L’altra cosa da considerare è quello che io chiamo il “calore spirituale”, per usare un’espressione molto cara ai nostri fratelli e sorelle delle chiese del Risveglio, perché è ciò che un essere umano percepisce quando si trova in un luogo dove c’è qualcosa di profondo. Si può trattare tanto di una comunità buddhista quanto di un monastero camaldolese o di un ashram indiano, però la percezione intuitiva, di pancia, di una dimensione spirituale solida e profonda attira molto. E poi attira una comunità accogliente, che ti tratta bene, che si prende cura di te e che ti aiuta affinché tu possa prenderti cura degli altri. Alla fine tutto si traduce in una religione non astratta, un evento della domenica che finisce lì, ma in una forma di esperienza totale, olistica, che investe la tua intera esistenza. Io penso che noi cristiani ogni tanto soffriamo di una sorta di schizofrenia, può succedere che non siamo in grado di coniugare bene le cose che leggiamo nei libri di teologia, la predicazione, con la vita quotidiana. A volte nei problemi esistenziali rimaniamo soli ed è fortunato chi ha una comunità, una guida spirituale in grado di orientare e dire una parola chiara e di sollievo».

Cosa, invece, sta decrescendo?

«Bisogna diversificare. Provo a rispondere in maniera sintetica e quindi rischiando di essere contestato. In generale le chiese protestanti storiche, da pastore valdese mi spiace dirlo, non sono in crescita. Qualche volta non solo in Europa, anche altrove subiscono delle perdite. Considerando anche solo le migrazioni intracristiane, in Africa o America Latina non sono infrequenti passaggi dalle comunità storicamente riformate e luterane verso le chiese pentecostali o neo pentecostali. Mi dispiace dirlo ma in generale, per quel che so, l’unica denominazione cristiana legata alla riforma in crescita è quella battista; anche se i battisti sono una galassia perché tutti i movimenti neo pentecostali, neo fondamentalisti, dal punto di vista tecnico, sono battisti dove conta il battesimo dei credenti adulti e avviene un netto rifiuto, biblicamente e teologicamente documentato, del battesimo dei bambini.

L’altra grande comunità di fede, parliamo di un miliardo di persone, in calo è quella indù; un tipo di religiosità che ha avuto, nei secoli, molteplici riforme e che ha visto diversi distacchi. In Pakistan c’è stata un’adesione massiccia all’Islam che ha portato territori e popolazioni a separarsi anche politicamente dall’India; si tratta di un’altra comunità di fede molto legata alla popolazione e al territorio che in patria subisce delle perdite. Però, un induismo ad uso e consumo europeo sembra godere anche di buona salute, anche se non sempre è istituzionalizzato».

Guarda il video dell’intervista:

Immagine: By Germano Roberto Schüür – Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44608511