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Afghanistan, sedici anni spesi male

Poco più di 16 anni fa, era il 7 ottobre 2001, il gruppo afghano Alleanza del Nord invadeva, con il supporto degli Stati Uniti e della Nato, il territorio dell’Afghanistan controllato dai talebani, compresa la capitale Kabul. Con questa azione militare aveva inizio un conflitto ancora oggi in corso e che ha lasciato sul terreno un numero di vittime difficilmente quantificabile, oltre a ricadute negative su tutta la regione. Con l’evolversi dell’operazione Enduring Freedom, le truppe occidentali, in particolare statunitensi e britannici, ma con un ampio contingente italiano, costituiscono ormai una presenza stabile nel Paese, da un lato per sostenere i governi che man mano si sono succeduti e dall’altro per combattere contro la presenza talebana nel Paese, ancora tutt’altro che scomparsa.

 

Quella in Afghanistan è la campagna militare più lunga della storia americana, così come di quella italiana, e una delle più lunghe in generale per il mondo occidentale contemporaneo. Ma quanto è costata e costa? A questa domanda prova a rispondere uno studio pubblicato da Milex, Osservatorio sulle spese militari italiane. Il problema è che, come afferma lo stesso Enrico Piovesana, uno tra i fondatori di Milex, «questo conflitto ha ormai un costo che molti giudicano incalcolabile». In effetti, le cifre ufficiali parlano di circa 800 miliardi di dollari per gli Stati Uniti e di 900 miliardi di dollari a livello globale, ma questi numeri non tengono conto delle spese accessorie legate a queste missioni militari, che comprendono l’acquisto di nuovi armamenti, l’allestimento e la manutenzione, la rotazione delle scorte di armi, l’addestramento dei militari per la missione, ma anche i costi sociali e umani della partecipazione a una guerra, come le spese sanitarie per i reduci, i feriti e i mutilati che tornano in patria. «Secondo gli studi di alcune università americane – ricorda Piovesana – tenendo conto di questi parametri il costo potrebbe addirittura raddoppiare. Per l’Italia parliamo di 7,5 miliardi di euro in 16 anni, il che significa quasi mezzo miliardo l’anno, una cifra veramente gigantesca».

 

È possibile conoscere i costi di un conflitto in modo completo, anche per un comune cittadino?

«Per quanto riguarda le cifre ufficiali dei costi diretti sì, perché ci sono i decreti di finanziamento approvati di anno in anno dal Parlamento italiano: basta andare a farsi i conti, è un po’ macchinoso ma non è difficile e si ha la cifra semplice. Il problema è che su tutti quelli che sono i costi aggiuntivi non è che c’è poco chiarezza, è proprio che non vengono computati in nessun modo, sono in mezzo a tutti gli altri costi di spesa militare che ogni Paese deve sostenere, Italia compresa. Insomma, la portata di questa componente è stata stimata studi molto approfonditi condotti dall’Università di Harvard e dalla Brown University, che anni fa hanno compiuto moltissime comparazioni su un bilancio, quello americano, che è comunque molto più trasparente rispetto a quello italiano. Ecco, in Italia è praticamente impossibile riuscirci, perché bisognerebbe andare a vedere mezzo per mezzo, arma per arma, quali sono stati contati, quali sono stati destinati lì, quanti danneggiati, quanti rimpiazzati. Insomma, sarebbe un lavoro lunghissimo, al punto che un comune cittadino, da solo, non può riuscirci».

 

Quando si parla, per esempio, dell’esportazione di armamenti, il livello di trasparenza del nostro Paese è peggiorato rispetto a qualche decennio fa. La rendicontazione delle spese per le missioni all’estero ha subito lo stesso deterioramento?

«No, per quanto riguarda le missioni all’estero c’è stato un miglioramento. Siamo andati a vedere gli ultimi quindici anni di decreti di finanziamento, a partire da quelli del 2001-2002, per quanto riguarda in particolare l’Afghanistan ed era difficilissimo trovare le cifre, perché venivano fatti decreti ad hoc che rimandavano ad altre leggi, ad altri stanziamenti. Insomma, era molto complicato. Negli anni questa cosa è andata un po’ più strutturandosi, perché per l’Italia partecipare a guerre e missioni militari internazionali ormai è diventata una costante, non è più qualcosa di eccezionale, quindi si è strutturato un sistema molto più chiaro da questo punto di vista, a differenza proprio delle relazioni sull’export di armi, che invece erano molto più trasparenti negli anni Ottanta rispetto a oggi. Ecco, lì sono sparite molte voci molto utili per capire quali sono i Paesi destinatari e di quali tipi di armi, mentre in questo caso per le missioni invece c’è una chiarezza maggiore che però, appunto, è sinonimo di una pratica che ormai è veramente diventata routine».

 

Che cosa si è ottenuto finora in questi sedici anni di guerra?

«Innanzitutto un numero gigantesco di morti. È un dato che si cita poco, ma 140.000 morti, secondo le stime più ottimistiche, sono una cifra enorme. Solo per parlare degli afghani, sono circa 100.000 i morti direttamente a causa del conflitto. Nonostante si parli meno di Afghanistan e la guerra sia andata un po’ in secondo piano, negli ultimi anni le vittime civili sono aumentate. Questo è un numero gigantesco di morti, contando che non si tiene conto di tutte le vittime civili causate dall’emergenza umanitaria provocata a sua volta dalla guerra. Secondo gli studi, di nuovo molto attendibili, compiuti da diverse università americane, è possibile sostenere che siano 360.000 gli afghani morti in questi 16 anni a causa di malnutrizione, povertà e delle condizioni umanitarie aberranti create da questo conflitto. Questo è il primo risultato tremendo che da solo annulla ogni propaganda sui mediocri risultati sociali e politici ottenuti in un Paese dove la gente appunto continua a morire per colpa nostra, in quanto forze di occupazione».

 

Detto delle vittime, quali altri risultati si possono citare?

«Diciamo subito che sono tutti deludenti, a partire da quello militare, visto che la resistenza talebana controlla ancora metà del Paese. La cosa peggiore però è che, al di là di un lieve calo del tasso dell’analfabetismo e di un modestissimo miglioramento della condizione femminile, limitata alle aree urbane e frutto del lavoro delle Ong più che della Nato, tutti gli altri indicatori sociali sono tremendi: la mortalità infantile è ancora la peggiore del pianeta, l’aspettativa di vita è la terzultima, prima solo di Ciad e Guinea-Bissau, il Paese rimane uno dei più poveri al mondo. Se parliamo della situazione politica, siamo di fronte a un regime di fatto integralista, basato sulla shari’ah, e che al di là di questo è comunque tra i più inefficienti e corrotti del mondo, lontanissimo da qualsiasi standard di uno Stato di diritto democratico. Inoltre la censura, la repressione violenta del dissenso e la tortura sono la norma.

Non dimentichiamo nemmeno la piaga dell’oppio e dell’eroina, che stanno devastando il paese: un’intera generazione di afghani è diventata tossicodipendente nel giro di pochi anni, per non parlare dei Paesi vicini e anche di casa nostra, perché questa eroina arriva anche in Italia e ne stiamo vedendo gli effetti, soprattutto tra gli adolescenti. Insomma, il quadro è sconfortante, sia per gli investimenti, sia soprattutto per i risultati».