La Chiesa valdese nacque come movimento ereticale alla fine del XII secolo dalla predicazione di un ex mercante di Lione, Valdo (o Valdés), che venduti i propri beni in seguito a una profonda crisi spirituale decise di vivere la propria fede sull’esempio degli apostoli. Una vicenda simile a quella di Francesco d’Assisi, ma con esiti opposti: scomunicati e perseguitati, Valdo e i suoi seguaci diedero vita a un movimento clandestino che si diffuse nel sud della Francia, in Calabria, nel sud della Germania e nelle Alpi Cozie.

In quest’ultima regione (l’area oggi conosciuta come “valli valdesi”) si consolidarono e nel 1532 aderirono alla Riforma protestante, costituendosi come chiesa e scontrandosi con il potere religioso e politico. Persecuzioni e guerre infiammarono quelle zone nei decenni successivi, culminando nel 1686, con l’editto in cui il duca Vittorio Amedeo II li obbligava all’abiura o all’espatrio: dopo un estremo tentativo di resistenza, furono quasi tutti deportati nelle carceri piemontesi; i pochi scampati si rifugiarono in Svizzera, da dove tornarono tre anni dopo nel cosiddetto Glorioso Rimpatrio.

Solo nel 1848, con le Lettere Patenti con cui il re Carlo Alberto concedeva loro i diritti civili e politici, le porte del “ghetto alpino” si aprirono e i valdesi ebbero la possibilità di abitare e lavorare su tutto il territorio del Regno.

Significativamente, fra le prime azioni dopo il riconoscimento della parità civile ci furono la fondazione di un giornale, L’Echo des Vallées, proprio nel 1848, dalla cui evoluzione è nata poi Riforma, di una casa editrice, la Claudiana, di una Facoltà di teologia per la formazione dei pastori, insieme all’apertura di numerose scuole elementari, istituti per orfani e anziani, ospedali in diverse parti d’Italia.

È qui che la storia valdese si intreccia con quella metodista e battista: nella loro opera di diffusione del Vangelo, che faceva parte di un preciso progetto di sviluppo spirituale, ma anche culturale, sociale e politico dell’Italia, i valdesi furono affiancati da altri protestanti.

Si trattava in particolare di missionari metodisti e di esuli politici, che negli anni caldi del Risorgimento avevano trovato rifugio soprattutto in Inghilterra e ne erano tornati convertiti, fondando comunità spontanee chiamate “chiese cristiane libere”.

Nel 1859 il segretario della Wesleyan Methodist Missionary Society di Londra, William Arthur, visitò l’Italia convincendosi della necessità di aprirvi una missione, inizialmente non per fondare una nuova chiesa metodista, ma per sostenere gli evangelici già presenti (valdesi e cristiani liberi). Arrivò così anche in Italia l’insegnamento dei fratelli Charles e John Wesley, che nella prima metà del Settecento avevano cercato un modo nuovo di vivere la fede, dando il via a un movimento improntato sullo studio delle Scritture e la preghiera, mai disgiunto dall’azione sociale verso i poveri, i malati, i carcerati, particolarmente urgente in quel periodo (la prima rivoluzione industriale) e caratterizzato dalla scansione metodica delle attività, da cui l’appellativo di metodisti.

Inizialmente la loro predicazione avvenne all’interno delle chiese già costituite, ma quando queste si chiusero alla novità, John cominciò a predicare in pubblico, nelle piazze, nelle case.

L’apertura al mondo, la dimensione sociale, il rivolgersi alle masse popolari contraddistinsero il movimento, che fu l’humus per le battaglie antischiaviste e le lotte dei lavoratori. I laici, uomini e donne, ebbero subito un ruolo determinante come predicatori e responsabili di attività, infatti furono due predicatori laici irlandesi a portare il metodismo nel nord America intorno al 1760, dando origine alla Chiesa metodista episcopale.

Entrambe le correnti, quella inglese e quella statunitense, arrivarono in Italia, riunendosi nel 1946 in un’unica chiesa, la Chiesa evangelica metodista d’Italia, prima sotto la giurisdizione della Conferenza metodista britannica, fino ad ottenere l’autonomia nel 1962. Nel 1975, infine, con il Patto di Integrazione con la Chiesa valdese è iniziato il cammino comune delle due denominazioni. Dall’attuazione del Patto di integrazione è nata l’Opera per le Chiese Evangeliche Metodiste in Italia (Opcemi), organo di gestione dei rapporti ecumenici e internazionali, dell’amministrazione degli stabili e delle persone in servizio.

Una vicenda simile portò il battismo in Italia: anch’esso vi giunse con i missionari inglesi e americani, negli anni Sessanta dell’Ottocento. Un’importante caratteristica della prima evangelizzazione dei Battisti, come pure degli altri evangelici italiani, fu l’istituzione di scuole. A La Spezia l’inglese Edward Clarke iniziò il suo lavoro aprendo subito una scuola contemporaneamente alla Chiesa fino ad arrivare ad avere nel ‘900 un istituto scolastico e due orfanotrofi (femminile e maschile). Non è un caso che queste varie opere di istruzione furono letteralmente spazzate via dal fascismo: un segno indubbio del loro carattere laico e progressista. Anche l’inglese James Wall organizzò a Roma una scuola e una mensa annessa. Come per le altre Chiese evangeliche italiane del tempo, per i battisti l’evangelizzazione non fu mai separata da un’intensa attività educativa.

Nel 1884 l’Unione cristiana apostolica battista (Ucab) raggruppò tutte le organizzazioni battiste in Italia, e nel 1956 nacque l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (Ucebi), con statuto autonomo dalla missione americana. A partire dagli anni ’80 la spinta verso l’autonomia divenne sempre più forte: fu rivisto il Patto costitutivo, fu elaborato un nuovo Regolamento, più articolato e completo, fu dotata l’Unione di una sua Confessione di fede.

Nel 1990 si tenne a Roma una sessione straordinaria congiunta dell’Assemblea Generale dell’Ucebi e del Sinodo delle Chiese valdesi e metodiste. In quella occasione fu approvato il “Documento sul reciproco riconoscimento fra Chiese battiste, metodiste e valdesi in Italia”, in cui si prende atto delle differenze riguardo alla prassi battesimale ma si riconosce nel contempo che ciò non costituisce ostacolo alla loro collaborazione. In particolare si afferma che “laddove, indipendentemente dalla forma e dal tempo in cui il battesimo è stato celebrato, si riscontra in chi l’ha ricevuto la realtà dei suoi frutti, per cui grazie all’azione dello Spirito la sostanza del battesimo è presente in quella persona,” il credente, proveniente dalle altre due Chiese, è accolto nelle Chiese battiste come membro a pieno titolo. L’importanza di questo documento nell’ecumene cristiana è assai notevole per il fatto che riguarda confessioni battiste (cioè che battezzano i credenti) e pedobattiste (cioè che battezzano gli infanti) e grandi speranze ha fatto nascere nel campo della collaborazione fra le tre denominazioni evangeliche in Italia, di cui il giornale Riforma è uno dei frutti più maturi.