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La lotta alla povertà comincia dall’istruzione

I bambini che vivono in condizioni di indigenza in Italia sono 1 milione e 434 mila. Il loro numero è raddoppiato tra il 2011 e il 2013, come mostra l’ultima rilevazione Istat. “Povertà assoluta” nell’età dell’infanzia significa non potersi alimentare in modo nutriente e consono all’età, non poter frequentare gruppi sportivi, andare in gita scolastica, in vacanza, acquistare libri o giochi e avere maggiori difficoltà ad essere a proprio agio nel gruppo di pari. Ne abbiamo parlato con Andrea Mannucci, docente di Pedagogia all’Università di Firenze, che insegna in due corsi di laurea che formano insegnanti ed educatori, figure fondamentali nel rapporto con l’infanzia in difficoltà.

Cosa pensa di questi numeri?

«Certamente la situazione è estremamente difficile, lo vediamo già dalla scuola, fin dai primi gradi: i nostri insegnanti hanno sempre meno strumenti formativi e operativi per rispondere a tutte le esigenze».

Il problema è la crisi delle reti sociali e dei servizi?

«Non è soltanto questo, è un problema culturale, di approccio delle famiglie. C’è un distacco sempre più forte tra il genitore e il figlio che diventa autonomo. Si tratta di un’autonomia negativa, che lo lascia da solo e allo sbando. È vero che i servizi sono carenti, ma il punto è che i fondi sono spesi male».

La crisi è della famiglia, quindi?

«Sì, ma non nel senso di modello di famiglia. Spesso continuiamo a esaltare il modello della famiglia tradizionale; oggi parliamo di famiglie, e bisognerebbe aiutare le varie realtà diverse nelle loro difficoltà quotidiane. Un ruolo importante potrebbero averlo gli insegnanti, ma la loro formazione in proposito è molto carente».

Un settore che si è indebolito in questi anni?

«Da anni è entrata in crisi la metodologia di lavoro: una crisi che diventa sempre più grave man mano che si sale nei gradi di istruzione. La scuola di secondo grado, per esempio, non ha un personale formato per accogliere le esigenze degli adolescenti».

Quali sono delle possibili vie d’uscita?

«Sicuramente si potrebbe partire dalla comunicazione, che influenza la cultura: i media, per esempio, dovrebbero parlare meno di statistiche e fatti drammatici, cose vere e importanti, ma che tralasciano la realtà di tutti i giorni, delle difficoltà educative delle famiglie, la necessità di recuperare una solidarietà e un rapporto tra le persone. Bisognerebbe anche valorizzare le realtà che funzionano, perché potrebbero essere un punto di riferimento per altri e per gli stessi genitori. Le cose non cambieranno se non si cambia la cultura».

Foto: “Genzano Infiorata Spallamento 20040621” di Ferdinando Chiodo – Opera propria. Con licenza Public domain tramite Wikimedia Commons.