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Altri sette spiriti peggiori di lui

Venticinque anni fa, la sera del 9 novembre 1989, si apriva il muro di Berlino. Tempo due anni e l’intero mondo del «socialismo reale» europeo si sarebbe sgonfiato del tutto, come un pallone bucato. Con il senno di poi c’era da aspettarselo, perché di segni premonitori, sin dall’inizio di quel decennio, ne avevamo già avuti parecchi, piccoli e grandi: i successi del sindacato Solidarność in Polonia, favoriti dall’eccezionale maestria politica di papa Wojtyła; la lenta ma inesorabile crescita, sotto il tetto delle chiese evangeliche nella Repubblica democratica tedesca (Ddr), di un movimento per la pace sempre più critico verso il regime totalitario del proprio paese e protagonista del movimento ecumenico per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato; soprattutto, l’evidente impossibilità dell’economia sovietica di sopportare i costi della corsa forsennata al riarmo atomico imposta dal grande nemico, gli Stati Uniti di Reagan; ma poi ancora: la perestrojka di Gorbaciov; i treni stracarichi di fuggitivi che già da due mesi lo aggiravano, il muro, ridotto a «linea Maginot» in seguito all’apertura della cortina di ferro sul confine fra Austria e Ungheria…

Eppure, nessuno se l’aspettava: né a Ovest né a Est; né da destra né da sinistra. Ancora un mese prima il segretario del partito-stato al potere, Honecker, aveva dichiarato, festeggiando il quarantennale della Ddr, che il muro di Berlino sarebbe rimasto in piedi altri cent’anni (sic!) e non era l’unico a crederci. Un mio amico fraterno di Berlino Ovest, Martin Köhler, pacifista e finissimo politologo, amava prendere in giro i suoi concittadini per non aver ancora eliminato i binari delle vecchie linee della metropolitana di superfice interrotte dal muro, quasi che si potesse sperare in una sua prossima rimozione. Quella sera, tornando a casa tutto contento con il suo nuovo computer portatile sotto braccio, si trovò ad attraversare un Kurfurstendamm (il corso principale della città) ingolfato di Trabant (le macchinine più diffuse nella Ddr, con la carrozzeria di cartone pestato rivestito di latta e il motorino a miscela) strombazzanti. «Che strano», si disse, ma poi andò a dormire tranquillo. Solo la mattina dopo seppe dalla radio che era accaduto niente meno che l’impensabile o, se pensabile, non tanto presto, e soprattutto non così come in effetti era accaduto, senza spargimento di sangue e addirittura senza alcuna resistenza degna di nota. Insomma, un miracolo.

Un miracolo destinato a cambiare volto in pochi anni non solo alla Germania, ma anche all’Europa e al resto del mondo, pur se non proprio come allora avevamo ingenuamente sperato, il mio amico Martin e io, insieme con tanta altra gente, primi fra tutti i pacifisti della Ddr che si erano mobilitati per una Germania socialista autenticamente democratica («Wir sind das Volk»: il popolo siamo noi) e non per l’annessione alla ricca Germania federale (troppo presto lo slogan più popolare divenne «Wir sind ein Volk»: siamo un sol popolo).

La minaccia di una catastrofe nucleare mondiale appare oggi assai più remota di allora, ma i fronti sui quali ci si scontra, si combatte e si muore (non solo in guerra e non solo di terrorismo) si sono paurosamente moltiplicati. In teoria la Germania, e in generale anche l’Europa e il mondo, sono più uniti, ma con poche eccezioni (l’Irlanda del Nord, il Sudafrica) niente affatto più pacifici e giusti. Al contrario, nel quarto di secolo passato si è imposto quasi ovunque nel mondo, finalmente liberato dal braccio di ferro fra capitalismo e socialismo reale, il «pensiero unico» della crescita economica a tutti i costi – incurante dello stato di salute del piccolo pianeta sul quale viviamo e dei limiti delle sue risorse – e della deregulation, vale a dire la legge della giungla: sempre meno doveri per i soggetti forti e, di conseguenza, sempre meno diritti per i più deboli. Tanto che verrebbe da dire, anche se è storicamente sbagliato e comunque non serve: forse si stava meglio quando si stava peggio…

Com’è potuto accadere? Miroslav Volf, evangelico battista originario di Osijek e oggi teologo a Harvard, riferendosi in particolare alla guerra dell’ex-Jugoslavia, lo spiegava a partire da una parabola di Gesù (Matteo 12, 43-45) [cfr. la rivista Protestantesimo n. 4/1993]: abbiamo cacciato dalla porta lo «spirito maligno» del comunismo autoritario – o meglio, più in generale, degli autoritarismi di destra e di sinistra degli imperi di una volta – ma non abbiamo saputo riempire il vuoto lasciato da quel vecchio spirito con lo spirito benigno di un’autentica democrazia solidale. Perciò, al posto di quel vecchio spirito maligno, ci siamo ritrovati presto alle prese con «altri sette spiriti peggiori di lui» entrati dalla finestra, a tutti gli effetti ancor più vecchi (un proliferare di rivendicazioni identitarie ed esclusive etniche, nazionali, regionali, religiose) o solo apparentemente nuovi (in particolare il liberismo della deregulation di cui sopra ovvero «Mammona», il dio denaro) ai quali sacrificare ogni altro valore, ogni altra idea, ogni ideale, ogni progetto (o anche solo sogno) di un mondo più giusto, solidale e perciò pacifico.

Che fare? Ricette facili non sembra che ve ne siano. Si tratta semplicemente (semplice da capire, ma difficile da fare!) di prendere ciascuno la propria croce; di non perdere alcuna occasione e, per quanto possibile, di ingegnarsi per ideare e sperimentare, cominciando dal nostro piccolo, regole condivise e nuove forme di socialità che in un qualunque modo possano contribuire a riportare al centro dell’attenzione di tutti il bene comune prima dei propri egoistici interessi personali o tribali. Alla lunga (ma forse neanche poi tanto) l’alternativa, altrettanto semplicemente, è nessun futuro per nessuno.