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Non è vero che non siamo stati felici

Vent’anni fa moriva un poeta (e saggista, traduttore, critico, intellettuale…) che aveva gli anni – e ne riportava molte ferite – della rivoluzione d’Ottobre. Franco Fortini, nato appunto a Firenze nel 1917, moriva a Milano il 28 novembre 1994: «Oggi – scriveva a caldo Cesare Garboli sulla “Repubblica” – è un giorno di dolore. È morto Franco Fortini, uno che ho sempre pensato e immaginato giovane.» Stava finendo il Novecento; o era già finito, visto che proprio in quell’anno usciva il libro che lo definiva Secolo breve, e si spegneva una voce che è impensabile al di fuori di quel secolo. Fortini non è un autore di quelli che sembrano parlare dall’eternità dei tempi, ma appunto uno scrittore impastato di tutte le speranze, le tragedie, le stanchezze e le tensioni del Novecento, eppure la sua è una voce che continua a parlare, in modi inattesi, all’oggi. I suoi testi poetici, i suoi rovelli, le sue scelte e le sue antipatie continuano a conquistare, nel passare delle generazioni, nuove orecchie che intendono, altre menti che ascoltano, valutano, interpretano e traducono, accettano e rifiutano. E altre ancora, possiamo pensare, ricominceranno a farlo nei prossimi anni, grazie anche ad un balenottero di carta (più di ottocento pagine) uscito in questi giorni – dopo un periodo di assenza dalle librerie dei suoi versi – che contiene Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, in quella collana «Oscar poesia» della Mondadori che sta ricomponendo, in edizione economica, il corpo della maggiore poesia italiana del secondo Novecento (Vittorio Sereni, Andrea Zanzotto, Giovanni Giudici). I Saggi ed epigrammi, sempre curati da Lenzini, compaiono ormai da oltre dieci anni tra i «Meridiani».

Fortini è uno scrittore che non parla a tutti: i suoi scritti prevedono l’esistenza di un lettore disposto a riempire i vuoti e a lasciarsi sfidare. Ad esempio, nei primi anni Sessanta del miracolo economico e delle speranza del centro-sinistra si lanciava contro il Progressismo Generalizzato e Riformista al punto da voler apparire il più astratto, il meno impegnato e impiegabile, il più “reazionario” degli scrittori: «Vorrei che a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come al viscido di un rettile.» Ma nella stessa occasione poteva indicare tra i compiti dello scrittore: «non negare mai la propria parola, dove ci sia possibilità vera di recare offesa salutare agli offensori e giusta ingiustizia agli ingiusti.»

La continua correzione, la contesa (interna ed esterna) senza riposo sono la sua vera cifra, che trova sfogo stilistico nei “ma” e nei “non” della sua poesia. Del giovanile incontro con il protestantesimo (di famiglia ebraica, fu battezzato a Firenze dal pastore Tullio Vinay), mantenne sempre un’attenzione per alcuni temi ma soprattutto un interminabile ricorso alla Bibbia, letta di preferenza nella Riveduta, che riemerge continuamente nelle sue pagine, tramite citazioni, allusioni, adattamenti, riscritture o ribaltamenti completi. Lo mostra ad esempio un testo eloquente fin dal titolo: Prima lettera da Babilonia, dove la capacità di costruire versi rielaborando la postura del profeta, sperimentata in altri casi, viene negata puntualmente, senza tregua, con l’abbattimento di tutti i messaggi profetici di liberazione, per mezzo di un’ossessiva ripetizione: “non è vero”.

Eppure – potenza del “non” – nemmeno il dovere di guardare in faccia senza fughe consolatorie la sofferenza e lo sfruttamento della storia è tutta la verità. «Non è vero che non siamo stati felici» inizia uno dei suoi testi più memorabili, che ci lascia l’immagine di un tempo non misurabile, senza confini certi, nemmeno quelli della morte, dove viventi che mai poterono incontrarsi fisicamente dialogano e costruiscono, nella «gioia».

 

Prima lettera da Babilonia
Al vecchio che gira la macina
una vena si spezza nella pupilla
e il serpe è vicino alla culla.
Confuso nella pagina e nella polvere
è il sandalo di un profeta ridicolo.
Non è vero che siamo in esilio.
Non è vero che torneremo in patria,
non è vero che piangeremo di gioia
dopo l’ultima svolta del cammino.
Non è vero che saremo perdonati.
Siedo a sera sul margine della foresta.
Le bestie selvagge e timide cercano acqua.
Guardo la grande diga che abbiamo costruita,
i lumi della centrale, l’aereo che scende,
la gente come me che ritorna alle case.

 

Non è vero
Non è vero che non siamo stati felici.
Lo sei stato ogni volta
che un occhio fissava deciso
a negare o ad imprendere.
Se entravi in una città ancora ignota
o dove il mare sta.
Se un gesto ricordava il buon uso dell’amore.
Penetravi le chiese, contro gli affreschi
il cuore come ti correva via. E rammentalo
piangeva di speranza quando ha voluto abbracciarti
lo straniero perseguitato.
O quando leggevi
dello sconfitto sfuggito di mano ai potenti?
E sul lavoro anche, per
impercettibili respiri,
tra ira e polvere, se pensavi altre menti.
Che senza sapere di noi in esse felici, altra gioia
ora o quando che sia consumando, altro tempo
a più durare
avranno con noi costruito di attimi. 

Foto: “Franco Fortini“. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikipedia.