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Sforzarsi di capire

La Repubblica di venerdì 16 gennaio riportava alcuni articoli che hanno particolarmente attirato la mia attenzione. Forse perché sintetizzavano piuttosto bene l’atto mediatico (ma forse, a volte, i media rappresentano semplicemente quanto la voce dei potenti desidera si rappresenti) della spiegazione della libertà (una sorta di meta-riflessione sulla libertà e i suoi eventuali limiti) e della funzione della religione: l’articolo sull’intervista al papa in viaggio verso Manila (di cui invito a leggere il testo integrale qui), la risposta alle sue affermazioni della ministra della giustizia francese Christiane Taubira e di François Hollande, l’articolo-riflessione di Stefano Rodotà. Domenica 18, poi, sullo stesso quotidiano, l’editoriale di Scalfari.

Per quanto riguarda l’intervista al papa, sono due gli elementi interessanti da considerare: la questione della libertà religiosa e quella della libertà d’espressione: 1) per il papa tutti hanno il diritto «di praticare la propria religione». Un diritto fondamentale, essenziale (anche naturale o acquisito nel corso di secoli di lotte per la libertà religiosa?), ma che ha anche dei limiti: esso può essere esercitato, ma «senza offendere. Non si può offendere o fare la guerra, uccidere in nome della propria religione, in nome di Dio»; 2) «Ognuno ha non solo la libertà e il diritto, ma anche l’obbligo di dire ciò che pensa per aiutare il bene comune (corsivo mio)»: una rivista satirica non può, non ha il diritto di offendere una religione esattamente come una religione non ha il diritto di uccidere in nome di Dio o fare la guerra… Ora, date queste premesse, è certo che non si può reagire violentemente, ma se uno mi offende (o offende mia madre) si deve aspettare un pugno. Logico, no?

Dunque, se la libertà d’espressione offensiva e la religione offesa entrano in collisione, ci si deve aspettare una reazione. Due problemi alquanto diversi sono intrecciati in un unico nodo. Ma, forse, quanto il papa ci teneva a dire era qualcosa che concerneva i limiti della religione (e, in effetti, questo dovrebbe essere il suo ambito di argomentazione) più che i limiti della libertà d’espressione. Leggendo il resto dell’intervista, ben si vede come il papa tratti l’argomento delle altre religioni: il buddismo (una volta si diceva che i buddisti andavano all’inferno… Sì, ma lo si diceva anche dei protestanti…) e chiaramente l’islam, vero centro della questione. E qui sorge un problema e il papa segue un gioco di superficialità, non è chiaro se voluto o dettato da ingenuità: non bisogna fare la guerra in nome di Dio. «A noi adesso ciò che succede ci stupisce, ma pensiamo alla nostra storia: quante guerre di religione abbiamo avuto! Pensiamo alla notte di San Bartolomeo…». Ma perché il papa ha scelto proprio questo esempio? Stiamo parlando di un massacro di religione? Allora, nella notte di San Bartolomeo i cattolici hanno massacrato gli ugonotti (aggiungiamo per ordine regio)… La guerra che vede coinvolto a più livelli l’Islam (perché è a questo che il papa fa riferimento) è qualcosa di paragonabile alla strage di San Bartolomeo? Il papa pensa forse che quella interna all’islam sia una guerra fratricida? Forse, ma andrebbe meglio esplicitato da parte sua.

Dalla Francia, due le reazioni interessanti al discorso del papa: «La Francia è il paese di Voltaire e dell’irriverenza. Abbiamo il diritto di ironizzare su tutte le religioni… Possiamo disegnare tutto, incluso il Profeta… Non ci sono tabù». È chiaro, l’autodeterminazione di una nazione implica l’auto-scelta delle regole valide al suo interno. Peccato poi che questa libertà assoluta si scontri con l’attacco a Dieudonné. Allora, la questione è: c’è libertà o no? C’è diritto alla libertà d’espressione anche quando questo porti a delle conseguenze difficilmente gestibili? Poi, la risposta di Hollande, ancor più interessante: in fondo esistono due islam, uno fanatico, fondamentalista, intollerante, l’islam che miete le sue vittime anzitutto tra i musulmani stessi; poi ce n’è un altro «compatibile con la democrazia». Insomma siamo di fronte ad un paradosso che vuole la libertà d’espressione coincidente con la libertà assoluta di qualcuno nei confronti di qualunque cosa, ma d’altra parte essa – la libertà – è inevitabilmente normata da interessi molto diversi da quelli della legittimità e del diritto.

La risposta di Rodotà mi sembra molto più “pensata”, benché anch’essa, per certi versi, generica: l’assunto di fondo è che la laicità e l’acquisizione del diritto alla libertà d’espressione si fondi sull’idea che anche se «non sono d’accordo con quel che dici mi batterò fino alla morte perché tu abbia il diritto di farlo» (Evelyn Hall). D’accordo. Il papa aveva contestato la definizione illuminista della religione come di una “sottocultura tollerata”, ma Rodotà, abilmente gli rimpalla l’idea secondo la quale la religione per l’Illuminismo è «parte di un contesto culturale nel quale tutte le opinioni, anche quelle sgradite, meritano rispetto». E questo pensiero del rispetto è merito dell’Illuminismo. Infondo, Rodotà vuole rimarcare la forza della ragione illuministica (benché ancora non realizzata del tutto) contro la confusione delle lingue, chiarezza nell’esercizio di libertà, uguaglianza e fraternità (cui si aggiunge solidarietà) che sono gli elementi chiave della cultura illuminista, contro ogni nebbia dovuta a situazioni politiche europee e mondiali sempre più intricate. Ma l’approssimazione della sua posizione sta nella dimensione di una definizione di religione che non corrisponde alla realtà delle religioni.

Infine, l’articolo di Scalfari: i terroristi del Califfato e di al Qaeda combattono contro «i musulmani che seguono le massime del Corano e non insultano altre religioni e contro l’Occidente e i suoi valori di libertà» (corsivo mio). Queste cellule terroristiche, questo «pulviscolo del terrore» si riunisce «liberamente» e mette in pericolo il «valore primario dell’Occidente»: la libertà. «Libertà di espressione, di religione, di movimento migratorio e di comportamenti». Ora, al di là del fatto che è evidente che non esiste affatto questa libertà di cui Scalfari parla (per esempio, non c’è alcuna libertà di movimento migratorio in Europa, almeno di persone; riguardo le merci è tutta un’altra faccenda), la questione centrale è che la colpa di quest’assenza di libertà è, per Scalfari, di al Qaeda e del Califfato. Mi chiedo se Scalfari stia scherzando. Forse no, nella misura in cui continua dicendo che «il pulviscolo del terrore richiede una strategia, una “intelligence” centralizzata, un comando non soltanto militare ma giudiziario, sociale ed economico». Bene, gentile Scalfari, questa “intelligence” c’è già e, sovra, ordina ogni altra “intelligence”: è la “civiltà-mondo” di cui parla Gallino nel suo Finanzcapitalismo e forse è questa la vera causa delle guerre di cui ora anche l’Europa è teatro. Ma per Scalfari la guerra cui assistiamo ha un connotato religioso: l’islam spaccato in due ha come primo bersaglio il cristianesimo (?), gli ebrei e lo Stato laico…

Ora, vorrei far notare quanto, trattando di religione, di libertà, di stato laico, di diritti, troppe cose siano confuse e mescolate ad emozioni violente, reazione ad atti terribili e scioccanti. Che cos’è la religione di cui si sta parlando in questi giorni (e di cui si parla oramai da molto tempo e sempre in riferimento ad atti “terroristici” o di guerra)? Cos’è quest’entità generica di cui tutti parlano ma di cui pochi sanno qualcosa? Esiste qualcosa come l’islam? Esiste qualcosa come il cristianesimo? Nei confronti dell’islam – ed è questo che ritengo centrale e perverso – quanto è importante non è l’elemento della credenza religiosa (in fondo, a nessuno interessa davvero il credo religioso dei popoli), ma se questa sia compatibile col sistema che la grande civiltà-mondo ha voluto impiantare. Non è importante la diversità, il pensiero, la prassi per quanto estranea al “nostro” mondo possa essere: il punto è comprendere se questa diversità sia integrabile, se essa sia sottomettibile al sistema. Il cristianesimo, in questo senso, deve essere un’entità unica alla base del grande sistema in cui tutto è uguale, indistinto e allo stesso tempo chiaro e distinto.

Da una parte, mi sentirei di dire che non è affatto l’islam ad essere in guerra con… (con chi sarebbe in guerra?), ma gruppi sostenuti ed armati dai potenti della terra per i loro propri interessi a che il mondo oggi funzioni così. Dall’altra, però c’è da rilevare che questi gruppi armati – dall’Isis assassino ai rapitori che domandano solo riscatti – sono parte di un sistema che sollecita e fomenta una difficoltà popolare reale, quella che vede delle persone anche religiosamente connotate, solo come pezzi di una scacchiera mondiale nella quale non hanno parte alcuna se non come pedine. È la povertà esasperata ad essere sollecitata, è la rabbia ad essere sollecitata e sollecitata da un mondo troppo spesso indifferente ai popoli in quanto tali, ed interessata al solo profitto. Perché la guerra genera enormi profitti, come anche li genera l’insicurezza, la presenza di un nemico. Così, il nemico è ora reale, ma è, allo stesso tempo, generato dal sistema.

Ma la mia attenzione va anche alle religioni, alle diversità, nel tentativo di comprenderle nelle loro articolazione profonda di esperienza religiosa: questa è la credenza, l’incontro con una dimensione altra (ma non astratta) e non trattabile, ma che può essere confessata. Essa però deve essere ascoltata. Ed oggi, l’impressione è che troppo in pochi si abbia la voglia di ascoltare il dettaglio della diversità. Per cui accontentiamoci dell’istruzione del papa che solo può dire qualcosa sul cristianesimo, o di sentire qualche cosa da qualche voce ufficiale dell’islam per essere rincuorati del fatto che l’estraneo, infondo, non è che un’anomalia del sistema.

Foto via Flickr