E quando una chiesa è in sofferenza?

Al National Capital Presbitery di Washington si riunisce il Church Development Committee, che ha il compito di monitorare le diverse chiese nelle fasi “critiche” della loro storia: nascita, maturità… scomparsa. Sì, anche scomparsa. Già affrontare questo argomento ci mostra somiglianze e differenza con cui si affronta l’immenso argomento “vita della chiesa” sulle due sponde dell’Oceano. Anche qui ci sono comunità che si costituiscono, ma anche altre che cessano di esistere. I motivi per la fine di una chiesa possono essere diversi, qui spesso legati al mutare delle condizioni economiche: una determinata area diventa troppo povera o troppo cara per abitarci, con relativo mutamento della popolazione. Ma si verificano anche situazioni più simili alle nostre, come l’invecchiamento della popolazione o il fatto che una chiesa sia diventata una specie di “club” esclusivo in cui nessuno è più riuscito ad entrare, così da perdere il senso di qualsiasi forma di evangelizzazione e di rapporto con il “mondo di fuori”. Nel lavoro di gruppo non si comincia però con dei “casi concreti”, ma con uno studio biblico: alla riunione a cui ho partecipato il testo era Numeri 13,25-33, il racconto degli esploratori mandati da Mosè a fare un sopralluogo nella Terra promessa. E com’è la terra che Dio ci promette? Splendida, là dove scorre latte e miele! No, terribile, perché abitata da giganti, rispetto ai quali noi siamo – e ci sentiamo! – minuscoli come cavallette.

Le speranze e le paure sono tutte in questo racconto, nel fatto che ogni storia può essere letta da prospettive diverse, che talvolta il “paese” che abitiamo ci divora. Quindi, quali sono le nostre speranze e le nostre ansie, se pensiamo a una chiesa specifica? Qualcuno vede il bicchiere mezzo pieno, qualcuno mezzo vuoto, certo, ma chi riconosce che il “bicchiere” non è nostro, ma di Gesù? Due cose colpiscono di questo modo di lavorare: che si può parlare di argomenti molto sensibili, come l’analisi dello stato di una chiesa anche usando parole laiche, come “ciclo vitale”. Scoprire insomma che non ci si deve lasciar terrorizzare dai termini, perché il tempo di una comunità può esaurirsi, non quello della chiesa di Gesù Cristo, ed è fondamentale capire la differenza. Ma anche rendersi conto che un gruppo di persone, per poter lavorare efficacemente, deve conoscersi, prendere tempo per parlarsi, e non sempre quantità di ore passate attorno a un tavolo significa qualità del lavoro. È anche fondamentale riconoscere che nel percorso di una chiesa – una linea del tempo che si può tracciare su un tabellone – vi sono delle tappe, e le persone possono cercar di capire in quale fase si trovano, tenendo però sempre in mente il fatto che chi sente di vivere una fase terminale porta con sé un senso di frustrazione e di fallimento: è probabile che quella chiesa abbia “iniziato a morire” molti anni prima, che ne rimanga lo “scheletro” (fisicamente: le pareti di un tempio vuoto, le mura di un castello a cui si è affezionati, ma nel quale però nessuno passa più le sue domeniche) – ma è certo che quelli che sono lì (concistori, membri di chiesa, pastori) a gestire il quotidiano soffrono dello scomparire della chiesa.

Ma dalla fine di una chiesa può nascere qualcosa di nuovo – non per nulla la sezione che si occupa specificatamente delle chiusure si chiama “next blessing”, “la benedizione che seguirà”; e questo non è un pietoso eufemismo, ma la sottolineatura del fatto che, se crediamo che il motore della chiesa sia lo Spirito Santo, anche da un fallimento terreno può derivare una benedizione. A cosa sappiamo rinunciare oggi per il bene delle generazioni che verranno?