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Dalla paura alla fede

Sabato 7 marzo alla chiesa presbiteriana taiwanese di Rockwille si è tenuto un seminario per le chiese presbiteriane di origine straniera. Questa indicazione è di per sé interessante: ci permette di scoprire che nella chiesa presbiteriana vi sono diversi nuclei non-statunitensi (Brasiliani, Ghanesi, Indonesiani, Pakistani, Sudcoreani, Taiwanesi), e che il modello di rapporto tra chiesa statunitense e chiese di origine straniera è diverso da quello dalle chiese valdesi e metodiste: non Essere chiesa insieme ma “chiese etniche”. Il tema scelto è importante: la relazione tra immigrazione e trauma, ed è introdotto da una ricca relazione di Joyce Macer, professoressa di teologia pratica al Virginia Theological Seminary, episcopale (anglicano).

Innanzitutto, cos’è un trauma, se non paura per l’inatteso, emozione temporanea ma con conseguenze durature, delusione dolorosa, evento che disorienta e getta nella disperazione? Se pensiamo che la parola stessa in greco significa originariamente ferita, possiamo capire come i gruppi di persone che emigrano – tanto più se non lo fanno per scelta, ma per dolorosa necessità politica o economica – portino spesso con sé le loro ferite, e facilmente sono preda di esperienze traumatiche. Ci sono traumi invisibili e impossibili da dire (il mobbing, la subdola violenza psicologica), traumi secondari (il dolore di chi assiste al dolore degli altri), traumi legati alla scoperta di essere consapevoli complici partecipi in un evento doloroso per altri (pensiamo ai racconti dei sopravvissuti ai lager nazisti come nei racconti di Primo Levi), traumi collettivi e condivisi (quando l’identificazione con un gruppo ci fa vivere come nostre storie angosciose che però non abbiamo materialmente sperimentato in prima persona). Come si reagisce al trauma, soprattutto quando esso non è solo emozione violenta, ma porta con sé anche reazioni fisiche? Un tipo di reazione è definita fight or flight “lotta o fuggi”: il nostro corpo produce sostanze che ci danno la forza eccezionale (e limitata nel tempo) per trovare risorse fisiche immediate. Oppure il meccanismo detto di freeze, “congelamento”, come il topo che davanti al gatto fa il morto e poi scappa a razzo. 

Però questi meccanismi non possono protrarsi all’infinito, altrimenti la vita subisce conseguenze disastrose: la persona traumatizzata è iper-reattiva, oppure iper-passiva, oppure semplicemente immobile di fonte al mondo. Se pensiamo ad alcuni comportamenti degli immigrati possiamo riconoscere come spesso essi sono incapaci di reagire al mondo nuovo in cui sono immersi, oppure cercano di comportarsi esageratamente come i nativi, oppure ancora vivono come se fossero ancora nel loro Paese di origine. E cosa dire poi del fatto che le società occidentali tendono a sottolineare anche gli aspetti traumatici dei nativi, comunicando ansia rispetto agli emigrati, riducendoli a uno stereotipo (a tutti i neri piace la musica; tutti gli zingari non si lavano ecc.) e annullando le specificità che ogni persona porta con sé? Le chiese possono fare qualcosa? Sì, decisamente: offrendo spazi di libertà e dando modo alle persone di scoprire quello che sono capaci di fare per far sì che gli eventi traumatici rimbalzino contro di loro provocando il minor stress possibile: in chiesa, anche quando tu non ti senti del tutto “ok”, sei tra fratelli e sorelle che ti accolgono. Per loro tu sei tu – non il tuo gruppo etnico, la tua nazionalità, il tuo genere – e tu sei ok.

Inutile negare che questo tipo di chiesa “costa”, perché costringe tutti a uscire dai comodi pregiudizi, per entrare in un territorio nuovo, inesplorato. Eppure la metafora dell’Esodo, con le sue sfide, è parte integrante del cammino di fede cristiano: un cammino in cui la desolazione può diventare apertura, l’aridità aprirsi alla bellezza, il pericolo in incontro e il vuoto assumere una nuova identità, come Giacobbe che riceve un nome inatteso solo dopo aver lottato con l’angelo di Dio, nel deserto (Genesi 32, 23-33).

Foto “Rockville town center roof top fridays” di Tammy Farrugia Communication Intern – Tammy Farrugia. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons.