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Evangelizzazione, ritornare al futuro

Perché le parole sono importanti

Nel Grande Lessico del Nuovo Testamento, la parola “evangelizzo” è prima di tutto collegata ad una radice ebraica, biśśar, che ha comunemente il significato di annuncio un messaggio di gioia. Dare una lieta notizia è già nella parola, mentre il greco ne ha messe insieme due, con la parola composta eu-vanghelion. Nel primo Testamento questa parola viene utilizzata spesso per annunciare la vittoria, quando un messaggero in battaglia viene dal campo di battaglia e annuncia appunto la vittoria sui nemici. È il libro di Isaia, in particolare il Deuteroisaia, che getta una luce importante sulla comprensione del termine. Il profeta è in attesa dell’unica grande vittoria, dell’inizio di una nuova era e il messaggero qui riveste grande importanza:

Quanto sono belli sui monti
i piedi del messaggero di buone notizie,
che annuncia la pace,
che è araldo di notizie liete,
che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: ‘Il tuo Dio regna’! (Is 52:7).

Il messaggero proclama il regno di Dio come effettivamente presente e inaugura un nuovo tempo. Il rapporto con il regno di Dio, con l’inserirsi di tutte le genti nella storia di salvezza, con la giustizia, la pace, la salvezza ci portano al Nuovo Testamento.

Nel vangelo di Luca, al capitolo 4, Gesù entra nella sinagoga e apre il rotolo del profeta Isaia, dov’era scritto:

Lo Spirito del Signore è sopra di me,
perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri;
mi ha mandato per annunciare la liberazione ai prigionieri
e il ricupero della vista ai ciechi;
per rimettere in libertà gli oppressi,
per proclamare l’anno accettevole del Signore.

Poi, chiuso il libro e resolo all’inserviente, si mise a sedere;
e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui.

Egli prese a dir loro: ‘Oggi, si è adempiuta questa Scrittura, che voi udite’ (Lu 4:16-21).

Gesù è il messaggero della notizia di gioia di Dio e, nello stesso tempo, il contenuto di questo messaggio. “Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà: ‘Eccolo qui’, o ‘Eccolo là’; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi”, dice Gesù sempre nel vangelo secondo Luca, al capitolo 17. Il compito di Gesù era annunciare il regno di Dio e la presenza del regno di Dio significa giustizia, pace, gioia.

Il vangelo di Marco inizia con una chiara dichiarazione teologica: “Questo è l’inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio”. Gesù è la risposta annunciata da Giovanni il battista, messaggero venuto a preparargli la via. Gesù stesso viene dunque annunciato dalla predicazione di Giovanni. L’atteso messaggio di gioia escatologico annunciato fin dai tempi del Deuteroisaia diviene ora parola efficace. Parola, segno, annuncio del Regno, resurrezione dei morti, sono segni dell’era messianica.

Già nei vangeli è testimoniata l’attività dei discepoli mandati ad annunciare il Regno di Dio e a guarire i malati. “Ed essi, partiti, andavano di villaggio in villaggio, evangelizzando e operando guarigioni dappertutto” (Lu 9:1-6). Dopo la Pentecoste, il libro degli Atti degli apostoli descrive l’attività degli apostoli, i quali, secondo Atti 5:42 “ogni giorno, nel tempio e per le case non cessavano di insegnare e portare il lieto messaggio che Gesù è il Cristo”.

Nell’epistola ai Romani l’accento va anche sui messaggeri: “Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annunci? E come annunceranno se non sono mandati? Com’è scritto: ‘Quanto sono belli i piedi di quelli che annunciano buone notizie!’ ” (Ro 10:14-15).

La predicazione, l’annuncio dell’evangelo di Gesù Cristo, è vista come la necessità, il dovere, ciò per cui è mandato, di Paolo: “Perché se evangelizzo, non debbo vantarmi, poiché necessità me n’è imposta; e guai a me, se non evangelizzo!” (1Co 9:16). Paolo, ebreo figlio di ebrei, apre la predicazione del vangelo dagli ebrei alle genti; ma non è lui che lo fa. È sempre il Signore il soggetto, è Dio stesso che parla mediante la predicazione e parla agli esseri umani, senza distinzione di provenienza, perché il Signore “è il Signore di tutti” (At 10:36).

Qual è il contenuto della predicazione? È lo stesso per giudei e pagani, per uomini e donne, per schiavi e liberi: Cristo, Cristo crocifisso, la Resurrezione, il Regno di Dio in Cristo: “E noi vi annunciamo una buona novella: la promessa fatta ai padri, Dio l’ha adempiuta per noi, loro figli risuscitando Gesù, come è scritto nel salmo secondo: Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato”(At 13:32s.). Nelle Scritture Dio ha parlato e la buona notizia è già stata annunciata. Evangelizzare è in relazione con tanti altri termini con cui fare strada nelle scritture stesse: parola, parola di Dio, annuncio, annunciare, insegnare, testimoniare, imparare, gridare, fede, evangelo.

Se Gesù è il messaggero e il contenuto e poi, nell’annuncio dei discepoli e delle discepole, è la parola di Dio che parla annunciando Cristo, questo messaggio non è solo predicazione. Non sono solo parole. Gesù aveva mandato i discepoli a predicare e a guarire. Evangelizzare porta con sé i segni di questo annuncio, una nuova relazione con Dio, con le altre e gli altri, tale da far guarire, da far riconoscere la gioia della salvezza.

Qualche spunto di riflessione

Sull’ultimo numero di Protestantesimo, in gran parte dedicato ad una prima carrellata di riflessioni sui 500 anni della Riforma, Fulvio Ferrario1 segna in alcuni punti le caratteristiche della Riforma che interpellano ancor oggi. Una di queste è la relazione tra annuncio dell’evangelo e società dell’a-religioso. Oggi, forse, non si vive più in una dimensione di aperta contrapposizione tra papisti ed evangelici, né tra credenti e atei, impostando il discorso sulla questione del senso della vita, ma sempre di più sembra che l’orizzonte si restringa in un “mi chiamo Mario Rossi, esco di casa e vado, se ne ho uno, a lavoro”. Ferrario mostra come le chiese evangeliche in Italia, quelle valdesi e metodiste in particolare con l’otto per mille (ma tra poco sarà anche il caso delle chiese battiste), sono conosciute per la loro etica ma molto meno perché annunciano Gesù Cristo. Certo la fede in Cristo è una fede che fa, una fede che vuole essere adulta, “come se Dio non ci fosse”, nello stesso tempo la vocazione è quella di confessare Cristo, in predicazione e azione. Si tratta della responsabilità, che contiene in sé anche il rischio, dell’interpretazione, di fare delle Scritture la propria vita quotidiana, non temendo i linguaggi correnti senza esserne sudditi.

La questione è allora quella della traduzione (tradimento?) sempre necessaria e dell’interpretazione delle Scritture. La Parola di Dio, detta, annunciata, proclamata nella bibbia, va ancora oggi letta, abitata, fatta entrare nella propria vita, vissuta, annunciata, proclamata.

Sempre in Protestantesimo, Sergio Rostagno2 si interroga sulla predicazione odierna, richiamando chi legge alla realtà. La Parola di Dio non è aleatoria, non è una “speranza che spera di essere udita”, ma è realtà che ha già parlato. Dio non è un ideale da proporre. Oggi le chiese sono confrontate dalla pluralità delle religioni e in questa pluralità si situano. Evangelizzare è dire una parola non definitiva come chiesa, ma collocata in questo tempo e ubbidiente rispetto alla Parola di Dio ricevuta, parola di salvezza in Cristo. Qui c’è tutta la vita, come singoli e come chiese. La libertà che Dio mi dona è gravida di responsabilità, è terreno di obbedienza a Dio, e nello stesso tempo è sostenuta da Dio, perché Dio mi ha amato per primo (cfr. 1Gv 4).

Un po’ di esperienza

Le chiese del Sola Scriptura possono tornare anche oggi gioiosamente alle Scritture, nutrirsi di esse, anche perché molti pensano di averle fatte proprie per osmosi, o per esperienze comunitarie. Evangelizzazione dunque interna, anche, che in linguaggio neotestamentario si chiama edificazione: tensione sempre viva tra l’individualità (“stai in silenzio davanti a Dio e aspettalo”) e la partecipazione alla comunità dei credenti che abbiamo ricevuto in dono dal Signore. Parlare di Gesù come la persona che fonda la mia vita è qualcosa che ha a che vedere con la quotidianità.

Alle campagne di evangelizzazione, che sono nutrimento forse più per chi le fa e va benissimo anche questo, affiancherei la mia relazione quotidiana con Dio, la preghiera, la lettura, e la relazione con le persone che incontro “fuori”. Quanto parlo di Cristo? Durante l’ultima Assemblea Generale dell’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia (Ucebi), uno dei gruppi di lavoro è stato dedicato all’evangelizzazione. I partecipanti e le partecipanti, provenienti dalle diverse chiese, sono stati invitati a raccontare le varie attività svolte localmente per “evangelizzare”. Quello che ne è emerso è stata una mappa gioiosa di attività, le più diverse, che avevano però tutte stretti legami con la quotidianità della vita comunitaria. Al centro la predicazione: nel culto, svolto anche a orari diversi, con modalità diverse; negli studi biblici, nei gruppi di lettura, nelle attività di formazione con le persone simpatizzanti.

Un giovane ministro di una chiesa ha detto: “Le prime persone coinvolte nell’annuncio all’esterno sono i familiari e gli amici: voglio portare i miei amici in un luogo, del quale non mi devo vergognare. Per questo il culto è gioioso, coinvolgente, accogliente”. Questa espressione mi interroga: quanto mi vergogno di portare persone nuove al culto? Non sarà che a volte, più di essere predicata la parola di Dio, sempre in movimento, che deride il re Davide perché vuole costruirgli una casa (2S 7), un tempio, ma che non rifiuta di abitare in mezzo a noi in Cristo, che fa di ogni uomo e di ogni donna il suo tempio, predico invece la mia chiesa, lo status quo? Non di rado ho incontrato persone che sono entrate entusiasticamente in chiesa e se ne sono andate altrettanto intensamente deluse: che cosa hanno ricevuto? La predicazione è stata coniugata dalla credibilità dell’esserci, dello stare accanto, dell’ascoltare? Nello stesso tempo penso che anche le domande sono importanti e se si cerca una comunità in cui stare bene, forse non si troverà Cristo, ma solo donne e uomini imperfetti; se si cerca Cristo forse si troverà una comunità, fatta da sorelle e fratelli.

Evangelizzare vuol dire anche disponibilità a cambiare. Evangelizzare come lasciarsi cambiare da quanti e quante incontriamo. I lamenti e le preoccupazioni per le chiese che si svuotano, si scontrano con la rigidità dei propri schemi mentali per quanto riguarda le liturgie dei culti, o i canti, o la prassi della preghiera, svelano anche una difficoltà. quanto siamo disposti a farci cambiare da chi viene “da fuori”? A vivere i conflitti inevitabili come occasione di crescita per tutti e tutte e per la chiesa? Qui però si tratta di linguaggi o di contenuto della predicazione?

Ritornare alle Scritture vuol dire anche voler fare questo discernimento. C’è una Parola che è parola di salvezza, parola di vita e ci sono tante parole per dirlo, tante quante sono le vite narrate nel Primo e nel Secondo Testamento. Ritornare alle Scritture è un buon equipaggiamento per affrontare il viaggio come chiese e come individui. Senza verità preconfezionate e immutabili, ma con la verità che ci è stata donata in Cristo.

In vista della crescita. Della Parola. Parola che dice e fa, che manda e che non ritorna indietro a vuoto, che cresce. È la Parola che cresce, e con essa, a volte, anche le chiese: ma anche no. A volte c’è chi se ne va contento a casa mentre prima era angosciato, come l’eunuco di Atti 8. E in vista del Regno di Dio, che, come dice un inno, conosco, aspetto, e che verrà.

1) F. Ferrario, Vocazione e annuncio. A proposito del V centenario della Riforma, in: «Protestantesimo», 69, (2014), 3, pp. 191-208.
2) S. Rostagno, Riprendiamoci la Riforma!, in: «Protestantesimo», 69, (2014), 3, pp. 209-214.