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Eutanasia per la prima volta in Parlamento

Per la prima volta in Italia il Parlamento ha calendarizzato, per il prossimo mese di marzo, la discussione sul tema del fine vita e dell’eutanasia. Questo delicato argomento porta con sé opinioni diverse, e sicuramente è necessario andare oltre alla cronaca per capire quali problemi e bisogni esistano per chi si trovi di fronte ad una scelta di tale importanza. Quando parliamo di eutanasia, parliamo di concretezza, di sofferenza quotidiana, di solitudine non solo dei malati, ma spesso dei familiari e amici di chi ha una malattia terminale. Si stima che circa 200 persone all’anno escano dall’Italia verso la Svizzera per cercare un fine vita dignitoso che rispetti le proprie volontà. Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni ha commentato queste due notizie con noi.

La discussione in Parlamento sembra una buona notizia: è così?

«Sì, anche se non c’è una garanzia che l’iter venga completato e si arrivi in aula, però il passo è molto importante, perché per la prima volta un gruppo politico ha selezionato il tema come propria priorità, e questo dovrebbe portare a una discussione. L’annuncio è stato dato dal capogruppo di Sel, Arturo Scotto: a questo punto le commissioni Giustizia e Affari Sociali dovranno decidere un testo base e avviare la discussione. Credo che questo risultato non sarebbe stato possibile senza la mobilitazione avviata a seguito del lancio della campagna eutanasia legale, con la quale le persone malate hanno raccontato le proprie storie, la strada che hanno scelto e il perché: grazie a questo percorso e alla raccolta di firme, dal settembre 2013 è depositata in Parlamento la nostra legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia e del testamento biologico».

Si possono fare previsioni sulla discussione?

«Resta sempre decisiva la questione dell’informazione e della conoscenza. Come nel caso di Dominique Velati, militante radicale, malata di cancro che ho aiutato ad andare in Svizzera per ottenere il suicidio assistito come aveva richiesto, autodenunciandomi alle forze dell’ordine. È stato un momento di grande informazione e presa di consapevolezza sul tema. Il ceto politico si è reso conto che appena si parla di questo argomento in modo preciso, l’opinione pubblica risponde. Per altro lo dicono tutti i sondaggi, in ultimo quello del Gazzettino del Nord Est secondo cui il 52 % dei frequentatori della messa cattolica è favorevole alla legalizzazione, così come il 75% degli elettori della Lega intervistati. Questo per dire che il tema non è un problema di laici contro cattolici, o di destra contro sinistra, come spesso ci raccontano, ma è un argomento che la gente sente nella propria vita, in famiglia e nel quotidiano e che rende pronti a una scelta politica personale a prescindere da come si muove la politica generale. Appena c’è un collegamento tra ciò che accade nella società e ciò che accade nel palazzo, quest’ultimo è costretto a reagire. Vale la pena di battersi per un paese informato, con un dibattito che coinvolga l’opinione pubblica: questo non può che portare a regole più ragionevoli».

I numeri di chi si sposta per morire sono significativi?

«Sono tanti, ma solo una piccolissima parte di quelli che vorrebbero almeno poter scegliere. Non ci devono essere risposte ideologiche e il punto chiave è che ciascuno possa scegliere per se stesso. Chi va all’estero è solo una piccola parte, ma non solo perché ci sono persone che non possono permetterselo sul piano economico, ma anche e soprattutto perché ci sono malati terminali che non sono più nelle condizioni di essere trasportati per un viaggio. Per loro c’è solo la possibilità di subire la scelta di altri. C’è dunque una domanda sociale alla quale le istituzioni non hanno saputo dare una risposta».

L’informazione può essere determinante…

«Ogni volta che si apre alla conoscenza, la reazione delle persone è positiva, al di là di cosa ognuno farebbe per se stesso. La conoscenza delle storie delle persone interessate è una grande arma per uscire dalla contrapposizione ideologica, dalla morale o dall’etica e capire concretamente cosa significa per chi attraversa queste situazioni essere limitati nelle proprie scelte. Ricordo che in Italia chi aiuta un malato terminale a morire rischia fino a 16 anni di carcere. Leggi così punitive favoriscono gli abusi. Una persona alla fine della vita è debolissima e può essere manipolata e sfruttata: occorrono delle buone regole che distinguano un comportamento criminale da uno rispettoso delle volontà della persona. Uno Stato che aiuta a vivere, rispetta anche una scelta di interruzione della vita».

Qualcuno dice che il 2016 sarà l’anno dei diritti, in Italia: che ne pensa?

«Forse, ma non cadrà dal cielo, è un obiettivo possibile ma difficile, perché le resistenze sono forti.  Occorre attenzione e mobilitazione adeguata».

Foto: Wylius via iStockPhoto