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La Libia riparte da un “no”. Ancora una volta

Nella giornata di lunedì il Parlamento di Tobruk, la componente della politica libica riconosciuta dalla comunità internazionale, ha votato per dare avvio alle attività del governo di unità nazionale varato dalle Nazioni Unite e riunito, per ora, a Tunisi. Tuttavia, l’assemblea ha deciso di respingere la formazione del nuovo governo, criticando alcuni aspetti della mediazione portata avanti dal diplomatico tedesco Martin Kobler.

L’esito del voto riporta indietro di alcuni mesi il processo di pace, che dovrebbe consegnare il paese a una forza unitaria in grado di portare al traguardo il percorso intrapreso nel 2011 con la cacciata di Gheddafi, fermatosi finora a pochi passi dalla partenza. Secondo Arturo Varvelli, ricercatore e capo del programma Terrorismo dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale, «quel che è successo era piuttosto prevedibile».

Quali sono le ragioni di questo “no”?

«Ci sono due ordini di motivi: il primo è la composizione numerica di questo governo, che secondo la maggior parte dei parlamentari di Tobruk è troppo numeroso, ma il secondo motivo è molto più importante, ed è quello relativo alle competenze militari, cioè chi ha il controllo delle forze armate del Paese.

Secondo il parlamento di Tobruk, questa competenza non dovrebbe andare al nuovo governo e di conseguenza al ministro della Difesa, ma dovrebbe rimanere in capo al rappresentante militare, che in questo caso è il generale Khalifa Haftar, rimasto escluso dalla formazione del nuovo esecutivo. Il generale sta facendo forti pressioni sui stessi parlamentari di Tobruk affinché venga riconosciuto il suo ruolo, e questo sta compromettendo l’esito positivo della vicenda».

Si ritiene che dietro il generale Haftar ci sia l’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi. È vero anche in questa fase?

«Sì, certamente. L’Egitto trova in Haftar una sponda utile al perseguimento dei propri interessi nazionali, che sono legati al contrasto delle formazioni terroristiche, o più in generale degli islamisti radicali che sono presenti in Libia e in particolare in Cirenaica. Insomma, Haftar sta facendo il lavoro sporco per conto dell’Egitto.

Il fatto è che da un certo punto di vista i timori egiziani di una possibile deriva islamista in Libia sono legittimi, perché bisogna ricordare che tra i due paesi c’è una frontiera desertica di migliaia di chilometri, e in Cirenaica si sono rifugiati molti membri della fratellanza musulmana, che in Egitto è stata dichiarata illegale ed espulsa, come se fosse una formazione terroristica. Tuttavia, non è legittimo compromettere il tentativo da parte delle Nazioni Unite di ottenere un processo di pacificazione all’interno del Paese».

Sembrava che tutto fosse indirizzato verso una buona soluzione, anche grazie agli sforzi del nuovo inviato delle Nazioni Unite in Libia, Martin Kobler. Quali sono state le novità portate dal diplomatico tedesco?

«Kobler ha avuto un merito rispetto a Bernardino Léon: ha sovvertito il vincolo della legittimità che il processo di negoziazione ha, per forza di cose, attribuito ai due Parlamenti, quello di Tripoli e quello di Tobruk. In qualche circostanza ha bypassato questo nodo, per esempio proprio nella formazione del governo, per il quale non sono stati interpellati direttamente i due organi, che altrimenti avrebbero avuto una rilevanza che in effetti non hanno: pur essendo due Parlamenti e costituendo due governi in realtà controllano ben poco nel Paese. Quando dico che li ha bypassati intendo dire che ha scelto di passare attraverso alcuni membri dei due Parlamenti e in più ha dialogato con le comunità locali, le municipalità e i rappresentanti tribali. Facendo questo, ha ottenuto un risultato che è quello della nomina di un governo, che però in qualche modo dev’essere poi validato almeno dal parlamento di Tobruk. Il problema, però, è che le nuove risoluzioni delle Nazioni Unite attribuiscono una nuova legittimità solo al nuovo governo, e questo rischia di creare una situazione di stallo».

Fino a che punto questo “no” ci riporta indietro nel processo di pace?

«Fa tornare il timore di avere tre governi anziché uno solo, e questo complica decisamente e ulteriormente il quadro politico. Se il governo nominato dalle Nazioni Unite non riceve l’investitura del potere da Tobruk e da Tripoli continueremo ad avere diverse forze, tutte incapaci di controllare territorialmente il Paese e di esercitare il monopolio dell’uso della forza, e di fatto continueremo a procrastinare una soluzione politica, favorendo ulteriormente il radicarsi dello Stato islamico sul territorio libico».

In effetti senza governo unitario non ci può essere la possibilità, per la comunità internazionale, di avviare operazioni militari contro il gruppo Stato islamico con il supporto dell’Onu. Ma secondo lei la minaccia portata dall’Isis in Libia è paragonabile a quella siriana?

«La tipologia è la stessa, ma per ora la forza è relativamente diversa. Se guardiamo al caso libico vediamo che l’Isis ha trovato due tipi di terreno fertile molto diversi: il primo a Derna, dove l’anno scorso è stato capace di instaurare una sorta di vera e propria enclave del Califfato, la prima fuori dal territorio siriano–iracheno, e l’ha fatto grazie a una tradizione jihadista della città e della Cirenaica. Nei decenni passati, infatti, molti libici, in particolare proprio dalla città di Derna, sono partiti per il fronte dell’Afghanistan, dell’Iraq e poi della Siria. Lì hanno combattuto e sono tornati come mujaheddin. Tornando in città con questo status hanno acquisito una nuova credibilità e hanno radicalizzano loro volta altri cittadini, sfruttando il contesto famigliare e tribale libico. Alcuni di questi combattenti si sono fusi con altri miliziani, principalmente giovani locali, e hanno creato questa prima enclave. Tuttavia, questa dimensione non è stata percepita come qualcosa di realmente autoctono da parte delle forze libiche, e alcune formazioni jihadiste hanno poi scalzato da Derna lo Stato islamico. Questo ci fa capire come in alcune zone l’Isis sia comunque percepito come qualcosa di esogeno rispetto alla tradizione libica».

Parlava di un secondo contesto: si riferisce a quello di Sirte?

«Esatto. A Sirte però il fenomeno è parzialmente diverso, perché qui l’Isis si è resa forte all’interno della tribù Qadhadhfa. Bisogna ricordare che Sirte è la città natale di Gheddafi, e sin dalla caduta del regime la tribù Qadhadhfa è sempre stata ostracizzata, esclusa dai giochi politici, duramente colpita e avversata anche da altre milizie e altre città, come Misurata o Tripoli. Questo ha comportato il fatto che alcuni degli elementi gheddafiani, soprattutto i più giovani, si siano affiliati al Califfato in varie forme. Oltre a questo, si sa che l’Isis ha poi inviato a Sirte emissari stranieri, e questo ha portato a un connubio di elementi autoctoni e di elementi stranieri, sfruttando le divisioni politiche locali».

Il gruppo Stato islamico ha costituito delle strutture parastatali, ma non può essere in alcun modo assimilato a uno Stato vero e proprio, il che per esempio non lo farà mai sedere a un tavolo per negoziare una pace, lasciando quindi poche alternative alla soluzione militare. Fin dove ci si può spingere con gli strumenti diplomatici e con quelli militari?

«È difficile dirlo, perché bisogna dosare lo strumento militare a seconda dell’obiettivo politico che si vuole ottenere. Stabilito che il punto d’arrivo è quello di pacificare questi paesi e di renderli stabili, dobbiamo tenere presente che se non riusciremo a farlo manterremo sempre vivo il rischio di conflitti e reitereremo le motivazioni che hanno portato prima alle sollevazioni popolari del 2011 e poi ai conflitti settari, etnici o civili, al loro interno. Bisogna dare lo schiaffo e poi bisogna essere capaci di porgere la mano, e mi sembra che i precedenti, come il caso dei sunniti esclusi dei giochi politici a Baghdad e dei gheddafiani ostracizzati in Libia, siano l’esempio più lampante di politiche che non debbano essere condotte ancora ulteriormente per non reiterare le stesse cause che hanno portato all’ascesa dell’Isis prima in Siria e in Iraq e poi in Libia, un processo che può verificarsi anche altrove nel Medio Oriente e nel Nordafrica».

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