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Pietro Scarnera, il fumettista di Primo Levi. Intervista a un “figlio dei figli”

Sono le undici di mattina quando Pietro Scarnera mi risponde al telefono. La sua voce è stanca e incerta, come quella di chi torna da un viaggio e non ne ha ancora elaborato le impressioni. Pietro è di rientro da Parigi, dove non era mai stato in vita sua. Racham, l’editore francese che ha tradotto Una stella tranquilla, la sua seconda graphic novel, lo aveva convinto a partecipare al celebre Festival di Angoulême. «Anche se non hai vinto è bene che ci vai», gli avevano detto. Ma a un certo punto, a sorpresa, Pietro ha sentito chiamare il suo nome sul palco. Una vera notte da oscar, per un artista che, stando alla “gavetta”, soltanto in parte può essere considerato “rivelazione”. Classe 1979, nato a Torino e cresciuto a Bologna, l’eloquio di Scarnera è profondo e discreto, come il tratto e le tinte delle sue storie, dense e difficili. Eppure le sue strisce a tutta pagina ti avvolgono e ti accompagnano, perché la fatica è soltanto il mezzo, non il fine, del loro autore.

Come accade che si diventi fumettisti?

«A essere sincero io non ho una formazione da fumettista, non ho studiato disegno ma scienze della comunicazione. Per più di cinque anni ho lavorato per un’agenzia giornalistica, concentrandomi sempre su temi sociali: immigrazione, integrazione, disabilità… Ancora oggi la mia principale occupazione è Graphic News, un portale di informazione a fumetti. Come accade di disegnare? C’è chi tiene il diario scritto, e chi, come me, sul diario ci fa degli schizzi. La prima storia che ho voluto raccontare è la storia di mio papà, morto dopo essere stato in coma vegetativo per cinque anni. Nasce così il mio primo libro a fumetti, Diario di un addio, uscito nel 2010. Era il periodo in cui si discuteva il caso di Eluana Englaro, ricordo che provavo un certo fastidio per il modo in cui veniva affrontato l’argomento, per l’approssimazione e l’assertività del dibattito. Il mio primo libro nasce proprio dall’esigenza di testimoniare la mia esperienza: come vive una persona in quelle condizioni e come vive un suo famigliare, nel caso specifico un figlio. L’idea era quella di fornire una base diversa per una discussione diversa. Nel 2009 quest’idea ha vinto il premio Komikazen, e così ho potuto pubblicare Diario di un addio con Comma 22, un vero editore. Dopodiché, per la stessa casa editrice, ho cominciato a lavorare a Primo Levi».

Vuoi dire «avete cominciato». Nel libro siete tu e Antonella, la tua compagna di viaggio. Esiste davvero o è un personaggio letterario?

«Antonella è la mia coinquilina in carne e ossa, è stata usata come “materia prima”, nel senso che vivendo con me si è trasformata in un soggetto da ritrarre. I due personaggi che ci sono nel libro sono solo parzialmente noi: lui è il mio alter ego ma non sono io, così come lei non è totalmente lei. Quest’intreccio è stata l’unica difficoltà del libro, nel senso che sono proprio questi due ragazzi che percorrono Torino sulle tracce di Primo Levi a consentire alla storia di andare avanti. È attraverso il percorso dei due giovani che ho potuto effettuare rapidi salti temporali dal dopoguerra agli anni Sessanta, e sempre grazie a loro ho impostato un confronto tra due generazioni, quella di Levi e quella dei “figli dei figli”. Una riflessione che è alla base del libro».

I tuoi personaggi, lo hai appena detto, sono voi ma non proprio; un fatto che si collega al Levi scrittore, che a mio giudizio è il vero soggetto del tuo libro. Il tema centrale, che anche tu ti sei posto e che ha assillato il lavoro di Levi, è quello tra la realtà storica e il racconto, la letteratura.

«Buona parte del dibattito su Levi nasce dalla confusione che si fa tra il personaggio pubblico, ovvero lo scrittore, e l’uomo privato. Di quest’ultimo in verità non sappiamo molto. Ho letto come altri delle biografie, ma non è sulla persona che volevo concentrarmi. Volevo invece ricostruire, o cercare di ricostruire il percorso dello scrittore. Questa fondamentale differenza, tra scrittura e privato, è a fondamento del mio libro, sin dalla copertina, che riporta Levi che indossa una maschera; sin dal titolo: Una stella tranquilla. Un corpo celeste che visto da lontano sembra immobile, mentre all’interno ribolle ed esplode. Il titolo in realtà riprende un racconto di Levi, su uno scienziato che vorrebbe andare in vacanza ma proprio quella sera la stella che seguiva esplode e scompare. Ho cercato di richiamare nel titolo la complessità della figura di Levi. Perché il rapporto tra la realtà e come ci si rappresenta vale anche per lui. Riprendendo i suoi scritti, ho composto un ritratto di come lui a sua volta si è ritratto. Da parte mia non c’era la pretesa di arrivare a dire chi era Levi».

Gallery: alcune tavole del fumetto

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Il tuo è un fumetto estremamente documentato. Con tanto di note in appendice.

«Per i testi ho usato frasi scritte o pronunciate da Levi. A volte ho adattato alla forma fumetto, ma sostanzialmente sono parole sue. A livello di immagini ho fatto le mie ricerche su materiali disponibili a tutti, anche perché volevo capire cos’è rimasto di tangibile alle nuove generazioni. Non ho cercato di scoprire cose nuove. Sono andato a vedere se Levi aveva mai disegnato qualcosa, e ho trovato i suoi gufi. E poi ho usato le immagini che emergono dalle sue opere: questi uomini sommersi, senza volto. Nella parte centrale di Se questo è un uomo Levi ci dice esplicitamente che è quella l’immagine che racchiude tutto il dolore del mondo. Per disegnare il lager mi sono affidato ai dipinti di Zoran Mušič. Inizialmente non volevo disegnarlo affatto, perché una cosa che non riesci nemmeno a immaginare non puoi disegnarla. Poi ho scelto di usare l’espediente di affidarmi a Mušič, un pittore che ha un percorso simile a quello di Levi, perché comincia a disegnare i primi schizzi già dentro Dachau e poi negli anni Settanta ritorna sull’argomento con una serie di dipinti dal titolo Noi non siamo gli ultimi. I calchi da Mušič hanno uno stile diverso dal resto del libro, sono in bianco e nero. Per quanto riguarda le note, le ho inserite a scanso di equivoci, ma anche perché tutto il libro è un invito alla lettura dell’opera di Levi: in questo senso i rimandi bibliografici sono un racconto nel racconto. La mia documentazione tuttavia non è dotta, ma da appassionato, oserei dire “da fan”. I libri di Levi gli ho letti in maniera anche un po’ ossessiva, quando ho cominciato a lavorare al libro quei testi erano già dentro di me, avevo già selezionato, sapevo cosa metterci».

Veniamo al tema della memoria di “noi nipoti”. Anna Bravo, su «Pagine ebraiche» ha scritto: «Una stella tranquilla è una conferma che i figli dei figli sono cresciuti, e lavorano con cura, competenza, e forse con più libertà e fiducia rispetto a noi generazione di mezzo. Vederlo è una gioia».

«Quando ho letto queste parole devo dire che mi sono anche un po’ commosso. Perché Anna Bravo ha colto esattamente quello che volevo fare, il fatto che le mie intenzioni siano state comprese mi ha messo il cuore in pace. È stato un libro difficile, non sapevo come sarebbe stato accolto. La mia è stata davvero un’operazione sentimentale: non di un biografo, non di uno studioso, ma di un lettore di una generazione successiva che si sente chiamato in causa dalle parole di Levi, e che prova a rispondere. Uno dei motivi principali per cui ho fatto questo libro è perché nelle opere di Levi il richiamo ai figli dei figli è costante».

Raccontaci del festival di Angoulême. Quando hai saputo che avevi vinto il “premio rivelazione”?

«Sono andato ad Angoulême perché in novembre il libro era uscito anche in francese. A dicembre ho saputo che era stato selezionato per il festival, e l’editore francese mi ha invitato. Ovviamente conoscevo il festival, perché, con le dovute proporzioni, si può dire che sia il “Cannes del fumetto”. Ma nessuno mi aveva detto di prepararmi al premio. Quando hanno chiamato il mio nome ero davvero terrorizzato, anche perché non parlo il francese. Hanno cercato un traduttore in sala come di solito si chiede se c’è un medico a bordo dell’aereo. Sul momento non ci ho capito molto. Adesso a mente fredda sono contento, non tanto per me, ma per il libro».

Che parte hanno avuto Torino e Bologna nella tua formazione? Se Claudio Magris è un torinese di Trieste, tu ti senti un bolognese di Torino?

«Io sono nato a Torino da genitori baresi. Già verso la fine del liceo mi sono trasferito con la famiglia a Bologna. Sono due luoghi importanti. Bologna è storicamente la capitale del fumetto, molti autori ed editori hanno vissuto qui, c’è un corso in accademia, mostre, festival… Se non avessi vissuto a Bologna, senza questo confronto continuo, forse non avrei fatto fumetti. D’altra parte sono molto legato a Torino. Uno dei motivi per cui ho fatto questo libro è perché volevo raccontare la mia città, com’è cambiata dal dopoguerra a oggi. Ho disegnato i quartieri dove ho abitato, Mirafiori e Lingotto. Da quanto ne so io, è la prima volta che vengono rappresentati in un fumetto».