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Make America Great again

Quando scendo alla stazione della metropolitana dell’università di Chicago-Illinois, la coda è già iniziata. Trump, il candidato indipendente alla nomination nel Partito repubblicano, deve parlare alle sei e i cancelli per i circa 10.000 posti del pavillon sono aperti da un’ora. Ci sono circa 500 metri di coda che andrà avanti per altre 3 ore. Bianchi soprattutto ma anche neri, asiatici, latini. Giovani con la maglietta che volgarmente insulta già Hillary Clinton, coppie distinte, curiosi. L’America dei diner e delle serie tv, la working class, dei dibattiti televisivi e dei sondaggi è tutta qui. Poi dall’altro lato dell’edificio ci sono alcune migliaia di manifestanti: sono sostenitori di Sanders, candidato alla nomination in casa democratica, studenti, latini, neri. Trump per loro è razzista, Trump vuole buttare fuori tutti gli illegali dagli Usa, viene paragonato a Hitler. Si fa dell’ironia sul suo taglio di capelli, sul modo in cui parla e sulle battute delle serie tv a cui ha partecipato. Trump non appartiene alla tradizione della difesa dei diritti e tantomeno a quella che vuole un paese fatto di integrazione tra le varie ondate migratorie, dove tutti abbiano gli stessi diritti e le stesse possibilità. Trump parla come mangia e per questo, qui come altrove piace. Secondo un sondaggio che chiedeva di indicare ai sostenitori la qualità migliore del proprio candidato, a Sanders viene riconosciuto il fatto che dice delle cose che toccano la gente che vuole poter migliorare la società e la propria condizione, Hilary Clinton è considerata la più esperta, ma Trump è quello che dice le cose come stanno.

Non ci sono supporters di Hillary Clinton davanti al pavillon. Numerosi quelli di Sanders. Alcuni sondaggi dicono che in competizione con Trump, Sanders avrebbe più chance. La protesta attacca soprattutto il lato razzista e bigotto di Trump. Dopo alcune ore di coda il comizio non si farà per via delle tensioni che ci sono state fuori e dentro il pavillon tra sostenitori e dimostranti. Molti la considerano una vittoria contro il razzismo di Trump e una difesa dei diritti di cui gli Usa si fanno da sempre portatori. A giudicare dai commenti sui blog e sui principali giornali non bisogna escludere che questa «rinuncia», ufficialmente motivata con ragioni di sicurezza, non verrà nelle prossime settimane usata da Trump per disegnare i sostenitori di Sanders, o in generale i democratici, come gente che non sa ascoltare l’avversario, facendo passare Trump come un vittima. Del resto la sindrome da accerchiamento che parte dei media e della società statunitense hanno creato attorno a Trump non può che giovargli.

Una parte dei Repubblicani gli è contro, così come alcuni settori chiave (le chiese più conservatrici) gli preferiscono Cruz. Eppure, incredibilmente vince ovunque e adesso tutti sono costretti a prenderlo sul serio. Viene dipinto come un buffone e il parallelo con Berlusconi viene usato su più di un giornale e sui cartelloni dei dimostranti. Ma vince perché gli Usa sono diventati più razzisti dopo otto anni di Obama oppure ci sono delle ragioni diverse per spiegare come mai la working class bianca, ma non solo, degli Usa, sembra essersi stufata dei partiti tradizionali, della dinastia Clinton-Bush, come dei repubblicani e ha deciso di votare per un miliardario che racconta volgarità e insulta tutti a partire dai diritti? Questa è la domanda a cui bisogna tentare di rispondere per capire il fenomeno Trump.

Il Guardian, in un recente articolo, suggerisce di guardare un video dove viene spiegato agli impiegati di una fabbrica di condizionatori d’aria dell’Indiana che il lavoro verrà spostato in Messico, grazie agli accordi «Nafta» voluti da Bill Clinton, e 1600 persone perderanno il lavoro. Il video postato su Youtube poche settimane fa è diventato virale è ha già 3.600.000 visualizzazioni e quasi diecimila commenti. Probabilmente Trump, o qualcuno del suo staff, li ha letti e ha deciso che, se una risposta vera è difficile da dare, si poteva tentare almeno di dare voce a quel disagio. Quello della mancanza di sicurezza per il lavoro perso, per il futuro dei figli, per il mutuo, per pagare la macchina, per arrivare a fine mese. Alcuni studi dimostrano che c’è una relazione abbastanza forte tra la percentuale di mortalità tra la popolazione in età lavorativa 40-64anni bianca e l’elettorato di Trump. E la percentuale si alza tra coloro che non sono andati al college.

In pratica, mentre l’età media di vita tra la popolazione afroamericana e ispanica si è leggermente alzata, qualcosa è successo in questo settore della società statunitense che oggi, più che essere di colpo diventato bigotto, ha paura. In quelle tre ore di coda lunga mezzo chilometro ci stanno tutti quelli che si sono accorti che trent’anni di politiche neoliberiste, portate avanti da repubblicani o da democratici in modo non dissimile, si sono rivelate per loro un fallimento. E non hanno più voglia di ascoltare ricette complicate, non hanno voglia di aspettare o di rinunciare. Vogliono indietro i bei tempi andati, vogliono che «l’America ritorni grande» ma soprattutto che la loro vita ritorni a essere una vita dove si cresce, si ha un lavoro si guadagna si mette da parte senza pensieri. Non sarà Trump a farlo, ma almeno lui fa loro credere che sia possibile, dà loro un nemico, lavora sulle loro paure e attacca le banche e le compagnie che portano il lavoro all’estero rovinando l’economia del paese.

I democratici, se vogliono vincere devono riuscire a trovare il candidato più credibile per rispondere a questa domanda e allo stesso tempo tenere insieme i diritti per tutti, la società multiculturale aperta, difendere le conquiste sulla sanità del mandato Obama e risolvere le questioni sulla politica estera e sulla violenza e il razzismo strutturale degli Usa. Trump può vincere perché ha un obiettivo più facile da raggiungere che si nutre di emozioni, di nemici e di nostalgia. Attaccarlo sul piano del razzismo, anche se indubbiamente mostra al mondo la volgarità, lo sprezzo delle regole democratiche e dei diritti civili che ha quest’uomo, rischia di rivelarsi un boomerang e di non centrare l’obiettivo.