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Lasciami entrare

Un artista viene invitato a Tzipporis, in Galilea, vicino a Nazareth. Lì un orfanotrofio dove lavorano operatori cristiani, musulmani ed ebrei accoglie decine di bambini senza nessuna distinzione di etnia, religione o provenienza. L’incontro tra l’artista, che attraverso l’arte è votato alla comunicazione, e la realtà del luogo, che illumina un territorio generalmente indicato come problematico, è fatale. Lui, Alessandro Valeri, sa che la bellezza di quanto accade nell’orfanotrofio è di per sé un’opera d’arte da curare e far crescere. Nasce così il progetto Sepphoris (Tzipporis in greco antico), ideato per sostenere la vita dell’orfanotrofio, che è già stato presentato come evento collaterale alla 56ma edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, e da cui è stato tratto un libro per raccogliere fondi; ora è a Roma con il titolo Lasciami entrare, fino al 24 luglio presso gli spazi de La Pelanda al Macro Testaccio a Roma.

Cosa ha trovato a Tzipporis?

«Quello che mi ha colpito moltissimo è stato trovare in questo posto concetti su cui ragiono da sempre: la tolleranza, la condivisione e i nomadismi culturali. Cose che hanno cambiato il mio modo di pensare e di lavorare. Grazie a questa ispirazione ho elaborato dei linguaggi per cercare di sostenere questi concetti, più che il luogo. Un posto, l’orfanotrofio, abitato per lo più da bambini arabi, ma arabi musulmani, arabi cristiani, arabi copti, ebrei che crescono in armonia dopo essere stati allontanati o aver perso le proprie famiglie. Le suore che gestiscono il centro, gli operatori e circa 70 bambini convivono insieme senza nessun tipo di influenza evangelizzatrice. Attraverso l’amore e l’attenzione si crea un’incredibile realtà di sicurezza, garanzia e accoglienza.

La motivazione che questo ha creato in me ha fatto sì che cominciassi a insistere per trovare un modo di comunicarlo, finché con Raffaele Gavarro, curatore della mostra, siamo riusciti a portare in Biennale quello che poi è diventato il progetto Sepphoris e anche la sua declinazione romana, Lasciami entrare. Quella di Roma è un’esposizione alla quale tengo perché è nella mia città e perché prevede un’installazione importantissima per la quale ho utilizzato tantissimi materiali molto incisivi».

Come emerge, attraverso il percorso espositivo, la necessità di comunicare?

«Data la mia formazione multimediale io utilizzo dei linguaggi misti, ragiono con tutto quello che si può utilizzare. L’installazione iniziale della mostra è accolta in un corridoio dove a terra sono posizionate trentamila matite spezzate. In un altro spazio il campo visivo è totalmente avvolto dalle dimensioni monumentali di scatti ingranditi che ritraggono particolari dell’orfanotrofio. Non c’è un rimando diretto alla sofferenza, ma piccoli dettagli, anche astratti.

Molto è basato sui disegni dei bambini, che trovano espressione in un lavoro composto da un insieme di suoni, di video e di segni: un foglio bianco si riempie progressivamente di fiori, arcobaleni, di acqua che bagna i fiori, di cielo. Sono disegni di bambini che hanno sofferto molto ma che nonostante tutto sono in pace con se stessi.

Tutti gli elementi legati insieme creano un’installazione che racconta un dovere disatteso nei confronti dell’infanzia, che ritrovo in tutto il mondo infantile in generale, nelle scuole dove si vuole tenere fortemente protetti i bambini e guidarli verso qualcosa che poi al di fuori di quell’ambiente scompare. Le matite spezzate rappresentano il fatto che non potranno più disegnare sogni perché fuori, e dopo l’infanzia, ci sono i conflitti, le incomprensioni e i disordini sociali. C’è la guerra.

In che modo la mostra sostiene il progetto?

«Tutti i lavori esposti, le grandi tele più un edizione di 200 piccole fotografie, le ho donate alla casa di accoglienza, e chi ne entra in possesso dona direttamente a loro. Quindi, per esempio, chi compra un’opera pagherà direttamente la fattura del falegname, senza nessun intermediario. Nel corso del tempo siamo riusciti a far fare i letti, ad avere i comodini e a far verniciare gli ambienti. Spero vada sempre meglio».

Anche non facendo politica l’arte ha comunque un ruolo sociale?

«L’arte è alla base della cultura. A differenza di un matematico che procede per processi empirici, se chiedi a un artista al lavoro cosa sta facendo, probabilmente non saprà risponderti finché non ha finito. Poi, quando l’opera è pronta, sembra fosse già perfettamente scritta nel suo cervello, ma non ha ben chiaro a livello dialettico quello che fa; il perché lo sa da dentro. Il ruolo sociale e politico si sente e poi si trasmette attraverso il proprio lavoro.

Sicuramente non sono l’unico che di questi tempi sta lavorando verso queste direzioni, perché quello che ci circonda è terribile.

Chi sta creando il male sul pianeta lo fa utilizzando i media, lo fa uccidendo, massacrando e mandando immediatamente in rete queste azioni. Non possiamo oscurare questi gesti di violenza ma dobbiamo combattere comunicando che è possibile, anche in un luogo come Israele, descritto come difficilissimo per tanti motivi, l’esistenza di realtà di grande accoglienza e tolleranza. Questo mi ha talmente colpito che ho fatto questo lavoro».

Foto via