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L’ipotesi confessante: l’importanza del contesto

Queste pagine non sono propriamente un articolo, ma note marginali, glosse, come dicevano i teologi medievali, a una pagina dell’ultimo libro del professor Ferrario (Il futuro della Riforma) presentato a Torre Pellice in margine al Sinodo insieme a quello del prof. Rostagno. Si tratta di testi che, è da augurarsi, forniranno motivo di studio per le nostre comunità nei prossimi mesi. Potranno aiutarle a riflettere in modo costruttivo in vista della ricorrenza della Riforma del 1517. Il testo di Ferrario è significativo anzitutto per l’analisi critica condotta a 360° dei problemi che si pongono oggi alla nostra attenzione, ma anche per la scrittura di chiarezza e precisione esemplare e lo stile scorrevole.

La lettura mi ha ricondotto agli anni ’70 del secolo scorso quando la Claudiana aveva pubblicato un mio breve saggio, Una chiesa in analisi, in cui all’esame della situazione di allora affiancavo alcune considerazioni con finalità propositive del tutto analoghe a quelle che il nuovo saggio presenta ai lettori.

Il raffronto fra i due testi non è possibile: nel caso di Ferrario si tratta di un lavoro accademico che si avvale di ampia letteratura e si pone in prospettiva culturale, nel caso mio si trattava di una modesta riflessione pastorale frutto di esperienze, poco più che un insieme di articoli di giornale. Diversa la forma ma analoghe le finalità: porre interrogativi e suggerire temi di riflessione. Oltre a questa affinità di intenti mi sorprende il fatto che i termini usati nella parte propositiva siano gli stessi che usavamo allora, due in particolare: settario e confessante. Guardando al nostro futuro, il professor Ferrario prospetta «una comunità di discepoli consapevoli» che potrebbe ispirarsi a una impostazione settaria della fede. Non si tratta, è superfluo dire, di fare la setta ripiegata su se stessa, autosufficiente e farisaica, ma con una identità forte e coerente, cosciente delle sue motivazioni.

Riguardo al fatto che la chiesa debba essere convinta confessante non può suscitare il minimo dubbio, o è testimone del Cristo vivente o non è ciò per cui Dio l’ha chiamata all’esistenza.

Quelle erano però le coordinate entro cui la mia generazione situava la sua riflessione negli anni ’60. Mario Miegge, nel suo saggio Il protestante nella storia, dedicava un paragrafo all’ipotesi settaria e la rivista Diakonia di quegli anni si può leggere come una riflessione sulla chiesa confessante.

Anche noi, figli della «grande svolta» della teologia di Barth e dell’esperienza di Bonhoeffer (quello di Finkenwalde più che quello degli scritti dal carcere) cercavamo di formulare una ipotesi teologica che permettesse alla chiesa di rinnovare il suo linguaggio alla luce delle nuove istanze teologiche per restare fedele alla sua vocazione tradizionale: l’evangelizzazione.

Il fatto che questo si riproponga a 40 anni di distanza fa riflettere. Si tratta di un fatto del tutto normale, si dirà, ogni generazione è chiamata a riformulare la sua fede in termini rispondenti alla situazione contingente. Qui c’è altro, non dei figli che dicono a modo loro la fede dei padri ma una chiesa che scopre la sua astenia (Ferrario su Riforma del 16 settembre) o la sua atonia, una chiesa che non ha più identità.

Non posso a questo punto evitare di pormi l’interrogativo: perché il progetto delineato in termini chiari dalla generazione degli anni ’60 non si è realizzato? Si possono individuare a mio avviso due tipi di motivazioni, anzitutto quella esterna. La chiesa degli anni ’60-’70, quella del dopoguerra, era convinta che il ventennio fascista e la guerra fossero parentesi storiche concluse e la nuova teologia di cui era stata espressione Gioventù cristiana e ora Agape non rappresentassero un rinnovamento ma un inciampo sul cammino della testimonianza. Questa situazione di tensione venne sconvolta dallo tsunami del ’68. L’ipotesi settaria sull’uscita dai locali ecclesiastici e la testimonianza in piazza e la chiesa confessante congelata. Quando si uscì dagli «anni di piombo» la testimonianza fu impostata alla luce della presenza, nella società, di una minoranza significativa; i laici Spini e Peyrot, figli della riflessione barthiana, aprirono il capitolo delle Intese che poneva fine al limbo del ’29 e il cammino proseguì via via fino all’otto per mille.

La chiesa di questi decenni si considera confessante nel suo rinnovamento interno (più spazio ai laici, ministero femminile), nelle sue opere sociali, nei vari proclami sinodali.

Oltre a queste motivazioni esterne, alle circostanze e alle opposizioni incontrate, agli equivoci, l’ipotesi di una comunità autenticamente confessante non si realizzò anche per motivi interni. Quella generazione non ebbe tempo e modo di formulare in linguaggio comprensibile al popolo credente la novità che il rinnovamento biblico recava alla fede evangelica.

Il «confessante» a cui si faceva riferimento era quello della Confessione di Barmen ma il mondo a cui si intendeva confessare la verità evangelica non era quello della Bestia nazista dell’Apocalisse bensì il muro di gomma di Andreotti e il gelo della guerra fredda.

Il riferimento era pertinente ma il contesto era altro. Confessare sì, ma che cosa, a chi, perché?

Qui sta il nodo del problema anche per l’oggi. Se la predicazione della generazione degli anni ’60-’70 non è riuscita a dare un orientamento alla chiesa e il confessante è rimasto un aggettivo e non è diventato realtà, un ideale senza corpo, lo si deve al fatto molto semplice: non siamo riusciti sin qui a formulare la fede cristiana in termini di esperienza personale convincente.

Che significa essere discepoli di Gesù Cristo nella vita sotto il profilo dell’etica, della pietà? Dare una risposta chiara e semplice è il compito dei pastori-apostoli (nell’ottica calviniana); questo seppero fare all’epoca della Riforma. Non è la chiesa confessante che fa dei credenti confessanti ma al contrario sono loro che fanno una comunità consapevole.

Foto Pietro Romeo