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Andare a scuola stando a casa

C’era una volta la collaborazione scuola-famiglia. Negli anni ’70, con l’elezione degli organi collegiali, dai Consigli di classe a quello di Istituto, si sperò che la partecipazione a pieno titolo dei genitori accanto ai docenti portasse nella scuola anche l’esperienza e la cultura del lavoro. Non fu così: gli organi collegiali furono, salvo alcune felici eccezioni, un fallimento e provocarono non poche frustrazioni in quegli insegnanti che avevano dedicato tempo ed energie nelle tante riunioni, per lo più burocratiche e inutili. Quanto ai genitori, non si interessarono più di tanto alla programmazione didattica e culturale della classe e della scuola nel suo complesso, ma continuarono a chiedere soprattutto l’informazione sul rendimento scolastico dei propri figli.

A distanza di cinquant’anni, per certi versi siamo all’estremo opposto e assistiamo alla contrapposizione tra famiglie e organizzazione scolastica. Prevalgono le esigenze individuali e viene meno la creazione di un gruppo-classe, l’educazione a convivere positivamente tra individui diversi, nel rispetto reciproco (aspetto essenziale del tempo scolastico che proprio per questo si volle “pieno”, ovunque possibile nella scuola dell’obbligo).

Nelle scorse settimane si sono manifestate alcune delle conseguenze negative di questa invadenza delle famiglie nella scuola, dalla rivendicazione del famoso “panino libero” – il diritto di non mangiare alla mensa scolastica e di portarsi il pasto a scuola – alla protesta contro i compiti a casa. E in questi giorni emerge il caos provocato dall’ondata di familismo: le scuole non sono pronte per organizzare in modo diverso la mensa, c’è il problema di riscaldare il cibo portato dai bambini in quello che gli operai chiamavano barachin (o schiscetta), e d’altra parte di avere dei frigoriferi per conservarlo dal momento dell’ingresso a quello di pranzo, le ditte che hanno in gestione la mensa protestano per questa contaminazione, in certe scuole i bambini di un tipo (di pasto) vengono separati dagli altri, con impiego di più aule e dunque necessità di pulizie (le cui spese dovrebbero essere addossate solo a chi mangia il pasto personale). E ancora: si parla tanto di dieta equilibrata, ma quanti genitori potranno avere il tempo di cucinare gli alimenti e distribuire nella settimana frutta e verdure fresche e cotte, e non solo pizza e panini, prosciutto e formaggio? Perché in tal caso il dosaggio di proteine, grassi, zuccheri e vitamine, tanto reclamizzato, andrebbe a farsi benedire…

Insomma un bel caos del tutto evitabile, se i genitori (non tutti certo) fossero capaci di comportarsi da genitori. Proprio sulla mensa, sul tipo di alimenti, ci può essere, come succede in alcune scuole, una valida collaborazione.

E invece di pretendere l’abolizione dei compiti a casa, si faccia una battaglia contro l’eccesso di libri adottati dagli insegnanti (istigati in questo dagli editori, per puro lucro) e di conseguenza contro gli zainetti assurdamente pesanti.

Indubbiamente sullo sfondo di tutti questi aspetti vi è l’insoddisfazione di molti genitori nei confronti della scuola pubblica, del tipo di educazione che essa realizza (o non realizza): ai problemi di sempre si sono aggiunti l’eccessivo numero di alunni per classe, l’emarginazione di alcuni, il rallentamento dei più bravi, anche per la presenza degli stranieri, il bullismo, la girandola dei supplenti. Aumentano le famiglie che preferiscono provvedere all’istruzione dei figli in proprio o con l’aiuto di insegnanti graditi. Il fenomeno delle scuole parentali (assai diffuso negli Usa, dove un milione di alunni ne usufruisce, mentre sono circa 70mila in Inghilerra, 3mila in Francia) sta prendendo piede anche in Italia (per ora siamo circa a un migliaio di famiglie). Questo tipo di scuola è legale dal momento che la nostra Costituzione afferma che «è dovere dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori dal matrimonio». Secondo i sostenitori delle parentali, dunque, è l’istruzione ad essere obbligatoria, non la scuola. Naturalmente i genitori devono autocertificare capacità e risorse per tale compito, essere periodicamente in rapporto con le direzioni didattiche (le quali possono disporre opportuni controlli). Gli esami funzionano come per i privatisti. Nulla impedisce che si possa arrivare fino all’università senza mai aver messo il piede dentro un’aula.

Quanto questo restare dentro la famiglia, “protetti” dal mondo esterno ridotto alla piscina o alla partita in palestra o a facebook sia educativo, lasciamo giudicare dagli psicologi… Certo che non si può parlare di “buona scuola” senza affrontare questi punti decisivi. La scuola pubblica, con la collaborazione delle famiglie, con insegnanti di qualità e adeguati fondi, dovrebbe formare dei cittadini che da piccoli imparino a stare con gli altri (anche se diversi) e, da grandi, non costruiscano muri, ma preferiscano spalancare finestre in tutte le direzioni e respirare aria per vivere.

Immagine: via pixabay.com