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Siria e Iraq, difendere i beni culturali per non perdere le radici

La battaglia per riconquistare Mossul, la seconda città dell’Iraq, roccaforte del Daesh, l’autoproclamato Stato islamico, cominciata due settimane fa, è sempre più intensa. Il “Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive” è una ricerca della “Missione Archeologica Italiana in Assiria” (MAIA) dell’Università degli Studi di Udine. Studiando il paesaggio archeologico della regione di Dohuk nel Kurdistan Iracheno il progetto cerca di documentare e valorizzare lo straordinario patrimonio archeologico di una regione intorno all’antica città di Ninive. Ma perché è così importante tutelare i beni archeologici, anche in una zona di guerra? Ne parliamo con Alberto Savioli, archeologo dell’Università di Udine.

Lei è appena tornato da una missione archeologica in Iraq, nei pressi di Mossul. Che cosa si sta facendo e in che modo si lavora in un territorio segnato dalla guerra?

«Il progetto di cui ci occupiamo come università di Udine è il progetto Terra di Ninive, che si svolge nell’entroterra di quella che è stata la grande capitale assira, poco più a nord, in un territorio che è incastonato tra le montagne e la pianura fluviale, tra il Tigri ad ovest e il Piccolo Zab a est, che scendono entrambi verso la capitale assira Ninive, l’odierna Mossul.

Il progetto al momento non prevede lo scavo: l’idea è quella di ottenere una licenza per scavare il sito dove si è combattuta la battaglia di Gaugamela, un sito che si chiama Tell Gomel, ma attualmente il progetto mira a studiare da un punto di vista archeologico il territorio perché prima del nostro arrivo del 2012 quest’area era completamente ignota in questo senso. È un progetto molto importante che viene portato avanti con l’aiuto della cooperazione, soprattutto il progetto di formazione del personale locale. In particolare, un progetto importante all’interno di questo quadro è quello dei canali assiri e tutta la conservazione di rilievi assiri su parete che si trovano alla testa di questi canali. Gli assiri, infatti, scavavano dei canali sia per irrigare la pianura a nord di Mossul sia per portare l’acqua alla capitale. Sono canali che hanno una rete di circa 250 km e alla cui testa è possibile trovare dei bellissimi pannelli decorativi e delle sculture che rappresentavano il sovrano assiro Sennacherib e le diverse divinità che proteggevano l’opera».

Qual è lo stato di conservazione dei beni culturali e archeologici di quest’area?

«Purtroppo, a causa degli anni trascorsi, delle intemperie, ma anche un po’ per lo stato di degrado in cui alcune zone versano, nonostante il tentativo di preservarle da parte dell’autorità locale del Kurdistan iracheno, queste opere hanno bisogno di tutela e hanno bisogno di essere valorizzate anche per la popolazione locale per fare sì che riesca a capire l’importanza e il valore di questi oggetti. Conservare un sito archeologico o un monumento non significa solo preservarlo dall’attacco dell’Isis o dagli agenti atmosferici, ma è anche utile per sensibilizzare le persone, perché purtroppo in molte aree del Medio Oriente i danni vengono anche provocati da queste».

In che senso? È un problema di incuria, è un problema di cultura o di approccio?

«Io ho lavorato in tutte le aree del Medio Oriente, dalla Turchia all’Arabia Saudita, fino alla Siria e all’Iraq, e ho visto situazioni più o meno simili ovunque, più gravi in certi Paesi rispetto ad altri. Ci sono siti, per esempio, che vengono completamente smantellati per farne materiale da costruzione. Le abitazioni nell’antichità erano costruite in mattone crudo e quindi la distruzione e la ricostruzione di villaggi sopra villaggi nel corso delle epoche storiche ha prodotto dei monticcioli artificiali in terra e argilla molto raffinata e di buona qualità, quindi è un ottimo materiale per costruzione che ancora adesso può essere sparso nei campi. Di conseguenza in alcune zone le colline artificiali vengono completamente distrutte per ottenere materiali da cava, in altre zone ad esempio ci possono essere dei rilievi, delle sculture che vengono distrutte perché c’è ancora l’idea in oriente, specialmente presso i contadini, che dietro queste sculture ci possa essere l’oro, oppure una cavità piena di preziosi. Le persone dunque in alcune zone fanno dei danni inconsapevolmente. Abbiamo anche visto che dei danni sono stati fatti di recente, prima della creazione della regione autonoma del Kurdistan iracheno: ai tempi di Saddam alcuni danni sono stati provocati da persone che usavano le sculture come tiro a segno per sparare col kalashnikov, altri sono stati saccheggiati da scavatori clandestini, altri rilievi sono stati distrutti con la dinamite perché si pensava che dietro ci potesse essere qualche cosa di prezioso».

Pochi giorni fa è cominciata l’offensiva contro il Daesh, contro l’Isis, nella città di Mossul, e si pensa che possa creare un importante flusso di sfollati interni. Questo va a incidere sul vostro lavoro?

«No, l’afflusso di persone non modificherà questo lavoro. Eventualmente, se la situazione dovesse farsi più pericolosa, potremmo perdere l’accesso alle aree meridionali, ma presumo che non accadrà. Noi abbiamo iniziato a lavorare nella piana di Ninive nel 2012 ed eravamo presenti quando nell’agosto del 2014 il Daesh attaccò la zona. Ecco, a parte quel momento, in cui ci fu una fuga in massa di yazidi e cristiani che scappavano verso le montagne, siamo sempre riusciti a lavorare e il progetto non è mai stato toccato».

Anche a livello di fondi non ci sono problemi rispetto al disastro umanitario?

«È vero, si lavora sempre in una situazione umanitaria molto grave e molto difficile, però c’è da dire che i progetti archeologici e quelli umanitari sono così diversi che non vanno in contrasto tra di loro: i soldi che vengono stanziati dall’Unione Europea e dalle agenzie internazionali nell’assistenza a questi profughi non sono i soldi che vengono utilizzati per la conservazione dei monumenti. Detto questo, assistiamo ogni giorno a una situazione politica e umanitaria che ti fa pensare, che ti fa conoscere delle realtà. Muovendoci tra le varie aree ci si confronta con queste persone scappate che raccontano la loro storia, ed è incredibile come in quei territori che sono stati ripopolati migliaia di anni fa dagli Assiri con deportati dalle campagne militari che conducevano in Siria e in zone del Medio oriente attuale, adesso si stia verificando di nuovo una situazione simile: l’avvento dell’Isis ha prodotto un dislocamento di civili in un territorio molto più a nord, dove c’erano già molte meno persone, e con l’attacco del 2014 se ne sono dislocate quasi 800.000 nei campi profughi qui attorno, quindi è anche una situazione umanitaria anche pesante per la regione autonoma in cui lavoriamo».

Una critica che si potrebbe muovere è che di fronte a una situazione come questa il lavoro dell’archeologo sia, diciamo così, futile. Come risponde a questa critica?

«Spesso quando si parla di archeologia si pensa che non ci sia nessun senso nel lavorare su beni antichi in un teatro di guerra o in una situazione così compromessa quando poi l’importante è la situazione umanitaria. Tuttavia, io penso che in un territorio dove la gente viene continuamente spostata, dove c’è una riscrittura anche degli equilibri etno-religiosi, su un territorio dove i bambini nascono e crescono in campi profughi quindi perdendo le loro radici la loro realtà storica, tradizionale, culturale, dare delle basi di conoscenza e degli insegnamenti è molto importante, per permettere loro di praticarli nel loro territorio, nella loro cultura che non hanno più.

Lo vedo con colleghi che lavorano nei campi profughi e che si occupano di istruzione: spiegare a un bambino che si trova in Libano e che viene da Palmira qual era la sua terra, qual era la sua tradizione, qual è l’importanza della sua tradizione, è dare una radice a un dargli una radice a un bambino che non ne ha più, perché crescendo in Libano verrà considerato un siriano dai libanesi, dai siriani verrà considerato un bambino cresciuto in un campo profughi libanese, e in tutto questo lui la sua terra non l’avrà mai vista. Vivendo certe realtà si può comprendere come in realtà la cultura, anche per un bambino di un campo profughi, sia molto importante».

Nei giorni scorsi ha fatto abbastanza scalpore, al punto da far promettere al ministro dell’Interno Alfano che si sarebbe aperta un’inchiesta, il tema del traffico di opere d’arte e di beni archeologici trafugati dall’Isis nei territori occupati, in Siria e in Iraq. Per provare a mettere in piedi strumenti di contrasto contro questo traffico, bisognerebbe partire, secondo lei, dal venditore o dall’acquirente?

«In realtà il venditore lo si può bloccare all’estero, e in qualche modo è compito dell’Interpol, ma fino a un certo punto ci si arriva. Bisognerebbe lavorare sugli importatori, anche perché i canali su cui questo materiale arriva sono abbastanza noti, perché è difficile che i materiali più importanti finiscano direttamente nei caveau dei collezionisti privati; molti di questi materiali vengono banditi alle case d’asta e ripuliti tramite passaporti falsi che vengono ricostruiti in Svizzera, dove viene riscritto i passato dell’oggetto. Ho fatto una ricerca tempo fa, ho studiato proprio questo argomento, e fino all’anno scorso l’importazione in America di oggetti antichi era aumentato dall’Iraq del 600%, dalla Siria del 133%. Ora, gli oggetti sono quelli, non è che gli oggetti archeologici o storici possano aumentare di numero, e quando le esportazioni aumentano e vengono da Paesi in guerra, beh, è facile risalire al canale, e si sa anche da chi le stiamo comprando. Diciamo che uno dei modi che ha l’Isis di finanziarsi è il traffico di opere d’arte, e quando le opere d’arte arrivano dall’Iraq e dalla Siria, noi non possiamo far finta di non sapere che le stiamo acquisendo dal Daesh, direttamente o indirettamente. Quando ci lamentiamo del saccheggio di Palmira e improvvisamente molti collezionisti e case d’aste cominciano a battere oggetti che sono di provenienza palmirena, soprattutto busti di tombe provenienti dal patrimonio di quella città, non ci possiamo nascondere dietro un dito. Servirebbe, paradossale dirlo, più responsabilità da parte di chi poi vende questi oggetti anche in modo legale, non si può dire che, visto che il passaporto è buono, allora ci si può astenere dal porsi il problema».

Foto: By UnknownCapillon, Public Domain, Link