buba

500 firme per non perdere il posto che si chiama casa

Avete presente il ritmo incessante e straziante di uno di quei blues da crossroad di Robert Johnson? Le dita corrono sulla chitarra, la voce acuta racconta storie, il crepitio della puntina del giradischi ci localizza nello spazio e nel tempo.

La nostra storia potrebbe iniziare così. Solo che non siamo sul crinale degli anni Trenta, non ci troviamo nel delta del Mississippi e al posto delle corde pizzicate di una chitarra il cellulare gracchia una base hip hop. Il crocevia però rimane centrale e, come per Robert Johnson, il rischio per il protagonista è quello di perdersi.

Ma andiamo con ordine: la storia inizia un giorno dell’estate del 2014 quando Bubakar, ragazzo da poco maggiorenne della Guinea-Bissau, arriva a Pomaretto, in val Germanasca. La sua strada ha incrociato il deserto libico, il Mediterraneo, le tante sofferenze che costellano l’esodo di migliaia di persone ogni giorno, ma di cui ci accorgiamo, forse, solo quando diventano numeri sui gommoni in mezzo al mare.

In fondo Bubakar è uno tra i tanti: approdato in Italia, fa richiesta d’asilo ed entra nel sistema di accoglienza, in un progetto gestito dalla Diaconia Valdese.

Bubakar, o meglio Buba, come tutti lo chiamano, è uno dei primi richiedenti asilo ad arrivare nel 2014 a Pomaretto, paesino di mezza montagna che non raggiunge i 1.100 abitanti e che fino a quel momento di migranti ne aveva visti pochi. Non è un dato secondario, perché per entrare nel cuore della gente di montagna serve tempo e Buba, che a suo modo è un po’ un pioniere, si è dovuto confrontare con un certo grado di diffidenza iniziale. In una delle occasioni in cui lo incontro mi racconta che non sempre la gente con cui parlava riusciva a pronunciare il suo nome o a collocare su una cartina il suo paese di provenienza. Ma, come per molti fatti della vita, il processo di integrazione dipende anche da quanto reciprocamente si è disposti a mettere in gioco e da quanto si vuole investire sull’altro in un tempo e in un luogo non scelti e controllabili. Dipende dalla quantità di corpo, sguardi e personalità che si vogliono accostare a quell’“uno tra i tanti”.

Nella vita di un richiedente asilo l’attesa è totalizzante e scandisce il tempo e l’altezza dell’orizzonte: la commissione, il ricorso di primo grado, poi quello di secondo grado e in alcuni casi la Cassazione. Se la risposta dopo queste tappe è sempre “no”, si rischia di scivolare verso il baratro della clandestinità, verso quel crossroad che ti porta a perderti. Ma tutto questo avviene in tempi lunghi e se la dimensione dell’attesa si pesa in anni, e i due cents che hai in tasca ti portano a provare a ricostruire la tua vita, può succedere che ti capitino occasioni in cui metterti in gioco. E, come spesso accade, questi processi iniziano anche dalle scuole.

Proprio quello che è accaduto a Buba e che raccontiamo nel video qui sotto: la storia di un ragazzo della Guinea-Bissau che vorrebbe vivere a Pomaretto, un luogo che per i suoi coetanei italiani spesso non rappresenta più l’orizzonte del domani. E che per farlo ha raccolto, con l’aiuto della rete di persone che ha conosciuto in questi anni, 500 firme a sostegno del suo ricorso in secondo grado.

Un video che è tuttavia in gran parte composto da immagini sfocate. Questo perché, oltre alla necessità di tutelare l’immagine di una persona che potrebbe diventare clandestina, quelle sfocature sono esse stesse parte del racconto del limbo in cui sono decine di migliaia di persone in Italia, in attesa che il nostro paese decida del loro futuro.

Del sorriso e degli occhi del protagonista dunque non vedrete che sagome. Quello stesso senso di indeterminatezza con cui lui può guardare al domani.

 

 

Il ritmo dell’integrazione di Buba si misura anche nel numero di bpm cantati e ballati ai suoi concerti, oppure nell’inchiostro di quelle 500 penne che nel pinerolese, in Val Susa, a Torino, hanno messo nero su bianco i nomi di chi lo sostiene. Una raccolta firme gestita in prima persona proprio da Buba e dalle persone che gli vogliono bene e che rappresenta un dato significativo per un piccolo territorio di provincia, che sembra in questo modo stringersi intorno a lui per confermare che questo ragazzo arrivato da lontano, che racconta il mondo cantando sulle basi hip hop, ne è ormai parte. Uno tra tanti, diventato qualcuno per molti.

C’è però un dato di verità a dire che Buba è, in fondo, uno tra i tanti. Si stimano in 40mila, forse 50, le persone che quest’anno sono già o potrebbero diventare, di fatto, veri e propri fantasmi. In gergo burocratico si chiamano diniegati: restano per anni in attesa di una risposta da parte delle istituzioni, provando ad integrarsi nel nostro tessuto sociale e poi da un giorno all’altro rischiano di scivolare nel limbo, in una zona cupa di clandestinità, carne fresca disponibile per i caporali e le mafie.

Un tema di estrema attualità, quello dell’asilo, su cui è da pochi giorni uscito il Rapporto protezione internazionale 2016, pubblicato da Anci, Cittalia, Fondazione migrantes e Servizio centrale Sprar. Su Internazionale, a partire da quel rapporto, vengono sintetizzati alcuni dati relativi agli ultimi anni, che riguardano in particolare al numero di domande d’asilo e a quello dei dinieghi.

Buba, in tutto questo processo, ha certamente avuto un pizzico di intraprendenza e personalità in più rispetto alla media di chi è nella stessa situazione. E in più ha avuto al fianco la sua musica, linguaggio potente e con una capacità di coinvolgimento che va al di là delle parole e dei ragionamenti. È stata quella stessa musica che lui vorrebbe diventasse un lavoro a permettere il coinvolgimento di così tante persone del luogo in cui vive. Anche in questo caso, come per il bluesman, la posta in gioco sul crocevia determina il futuro. Sta a noi, invece, capire se e quanto vorremo ancora ignorare questa realtà che cresce e cammina al nostro fianco ogni giorno, costantemente sul filo di un baratro.

 

I woke up this mornin
feelin round for my shoes
Know bout at I got these
old walkin blues
woke up this mornin
feelin round oh for my shoes
but you know bout at I got these
old walkin blues”

Robert Johnson, Walkin’ Blues

 

Africa, lascia stare la tua guerra,
i tuoi figli vogliono essere liberi.
Africa, io voglio la pace,
voglio vedere la nostra terra unita.”

Bubakar