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Dalla Libia non si torna

«Raccontarlo a tutti». Con queste parole si conclude l’intervista con Dieudonné (nome di fantasia), un uomo di circa trent’anni che nel suo viaggio verso l’Italia ha vissuto sulla propria pelle la crudeltà della situazione in Libia e che ho avuto l’occasione di intervistare. L’ultima domanda era sulla sua vita, su cosa volesse fare ora. Avrebbe potuto dirmi “andare avanti”, oppure “scappare”, “ricominciare”. Avrebbe potuto soprattutto dirmi “dimenticare”. Invece mi ha detto «raccontarlo a tutti».

Avevo già intervistato un ragazzo passato per le prigioni libiche. Lui però non voleva raccontare. Era ancora spaventato. Ma la paura di Dieudonné, giovane dell’Africa sub-sahariana, si è trasformata in rabbia e in voglia di raccontare.

Il suo Paese non è riconosciuto come “paese non sicuro” dall’Italia, ma l’emigrazione può avvenire per diversi motivi, come sanno i nostri antenati italiani in America e non solo. In questo caso le ragioni non sono economiche: Dieudonné emigra perché la sua vita è in pericolo, perché è stato minacciato diverse volte e teme per l’incolumità sua e dei suoi familiari. Non vuole dire di più e io non chiedo.

«Ho lasciato il Cameroun nel gennaio 2016 – racconta – e ho raggiunto la Nigeria, ma non faceva per me, perché era un paese molto instabile e minacciato dalla violenza di Boko Haram, soprattutto al nord. Ho preso la strada del Niger, e da lì il deserto, per almeno quattro giorni».

Speranze da rivedere

Qui iniziano le violenze dei passeur, traghettatori professionisti o improvvisati di esseri umani, che dispensano violenze e sopraffazioni. «Un viaggio senz’acqua, abbandonati a noi stessi: quattro persone non ce l’hanno fatta e sono morte nel percorso. Ma grazie a Dio siamo giunti a Tamanrasset, in Algeria».

Questo Paese doveva essere in origine la meta di Dieudonné: lì avrebbe raggiunto conoscenti e familiari, c’era la prospettiva di un lavoro e la possibilità di ricostruire la sua vita. Ma presto anche qui le speranze sono state spezzate: «siamo stati mercificati come oggetti, trattati come meschini perché neri. Qui il nero non ha un posto nella società: lavoravamo e non ci pagavano. L’alternativa era vendere la droga o stare in giri illegali malavitosi. Dopo quattro mesi, a maggio, ho deciso di partire per il Marocco. Anche lì non c’è lavoro per noi, siamo obbligati a mendicare per le strade o vivere nelle foreste tra diversi pericoli. Alcuni tentano di attraversare la frontiera con la Spagna, a Ceuta o Melilla. Io non ci sono riuscito».

E poi via dal Marocco, verso la Libia, in quello che il testimone considera l’inizio del vero calvario, come se fino a ora fosse stata una passeggiata. A Gadames, in agosto, «ci hanno subito messo ai lavori forzati, senza permetterci di mangiare, minacciandoci con continui colpi di fucile in aria, picchiandoci e ferendoci. Gli schiavi stanno meglio di come siamo stati noi. Non ho parole per definire i libici: non sono cattivi, sono di più, sadici e crudeli. Le donne venivano picchiate, seviziate, violentate davanti a noi, spesso uccise subito dopo. I libici provano del piacere quando gli altri soffrono, per esempio quando seviziano le donne dopo averle violentate».

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Immagine via “Esodi” di Medici per i diritti umani

Dentro l’inferno libico

In Libia i trafficanti prendono tutti i soldi ai migranti, scambiando le persone come merci: «diverse volte mi hanno venduto davanti ai miei occhi, alcuni si sono opposti e sono stati uccisi. A Tripoli – continua deciso Dieudonné – era il tripudio della mafia: siamo passati di auto in auto, chiusi nelle carrozzerie e scambiati come oggetti. Lì c’è davvero il caos totale: mi hanno arrestato, spesso dei fratelli sono morti sotto i miei occhi, picchiati talmente tanto da non farcela più. Molti impazziscono, un domani non potranno aiutare più le loro famiglie perché sono impazziti, la loro mente è bruciata. Troppe minacce, troppe botte, troppo poco cibo, acqua misurata al bicchiere per tutta la giornata. Quando l’acqua è finita è finita. Avevamo diritto a un solo pasto al giorno, intorno alle 18».

Poi, la speranza: Dieudonné riesce a evadere dal carcere, insieme ad altri migranti. Nella fuga alcuni sono stati colpiti da proiettili e sono morti al suo fianco. «Ci siamo sforzati di essere obbedienti e lo abbiamo fatto per i nostri figli, per le nostre famiglie, per andare avanti. I fratelli persi sono tanti».

Il dovere di raccontare

Insieme ai suoi compagni di viaggio sopravvissuti, Dieudonné vuole lanciare un appello molto forte a chi intende passare dalla Libia: «non fatelo». Sulla sua pelle ha conosciuto la necessità di partire e poi, successivamente, il dolore, la fatica e l’umiliazione del viaggio, quindi le sue non sono parole a caso. La volontà è quella di sensibilizzare, di avvertire, di mettere in guardia non solo dai pericoli del viaggio, ma anche dalla crudeltà, dal sadismo e dalla viltà della realtà quotidiana in Libia. «Non prendete quella strada». Anche passare dalla Spagna è difficile, ma nulla è tragico come il passaggio in Libia, le alternative si fanno sempre più rade.

In un anno Dieudonné ha attraversato sei paesi e ha visto sconvolgere per sempre la sua vita. Oltre al dolore, nel racconto riemerge la rabbia: quando chiedo chi esercita la violenza in Libia, se gruppi armati, l’esercito o criminali comuni, lui mi risponde “tutti”. «Tutti i libici, che siano in divisa o no. È una catena della violenza, chi non è coinvolto direttamente è connivente. Ci sono anche passeur neri che collaborano, così come civili libici o i militari. Tutti sono coinvolti in questo tipo di mafia, a tutti i livelli. Tutti lo fanno, tutti sono sadici e le condizioni nelle quali fanno stare i neri sono molto crudeli».

Razzismo e paura

Un misto di paura e razzismo nei confronti dei neri africani spinge queste persone ad agire con violenza: «per la strada, se dicevo buongiorno a un passante prendeva un bastone e mi picchiava, dicendo che noi neri non meritiamo di vivere». Un razzismo estremista che per il testimone si avvicina molto a una malattia mentale, che non permette di vedere l’umanità delle persone.

«Non puoi capire»

Più volte Dieudonné dice che lui vive per testimoniare e per denunciare con forza ciò che accade in quei luoghi, per nulla raccontato dall’informazione. «Chi non è stato in quell’inferno non può capire cosa significhi, può solo ascoltare – mi dice severo Dieudonné – le sue parole saranno solo storie». Ma non è un buon motivo per smettere di raccontare, di provarci, di dare a tutti un po’ di quelle immagini orribili che lui ha in fondo agli occhi e dentro al cuore. Per sempre.

«Noi abbiamo visto fratelli morire ogni giorno senza aver fatto niente di male, di botte o di fame nelle prigioni o nel deserto. Abbiamo visto le donne violentate e poi uccise. Tutte condizioni che non vengono denunciate. Io sono un uomo di giustizia e come tale ho bisogno di schierarmi: se non lo faccio nessuno lo farà per me e per i miei fratelli». Il dolore è grande nel pensare ad altri esseri umani in quelle condizioni, ieri, oggi e purtroppo domani, nelle carceri libiche, sotto le botte casuali e alla mercé dell’odio. «Ecco perché chiediamo l’aiuto della comunità internazionale: abbiamo dei contatti in diversi paesi, che ci dicono che cosa succede per permetterci di sensibilizzare le persone e avvertire su ciò che accade. Ma soprattutto, abbiamo ancora dei fratelli in quei luoghi».

Il mare

«Quando siamo evasi dalla prigione siamo andati dal nostro passeur e gli abbiamo chiesto di rientrare nel nostro Paese e piuttosto fermarsi in un Paese lungo la strada. Ma era più facile morire che riuscire a tornare indietro. Nessuno torna dalla Libia. Piuttosto si è obbligati a prendere il mare sotto minaccia dei gruppi armati. Ci hanno messo, armi alla mano, su imbarcazioni già rotte, ma era l’unica opzione che avevamo e purtroppo molti non sono mai arrivati». Con queste parole Dieudonné mi racconta la partenza verso l’Italia. Ma questa è un altra storia.

E adesso?

E adesso occorre gridare, raccontare a tutti cosa è accaduto, come si diceva all’inizio. «Migliaia sono morti nel Mediterraneo – dice Dieudonné – , ma non si contano quelli morti in Libia, che credo siano di più. Spero di avere la fortuna di far parte di una Ong per denunciare la situazione e le violenze. Abbiamo creato una pagina web su cui scriviamo e cerchiamo di far sapere a tutti ciò che abbiamo vissuto. Perché nessuno lo viva ancora».

Immagine di copertina: Francesco Piobbichi: La libia mi ha bruciato l’anima