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Un romanzo che forse non pone la domanda giusta

Ha provocato subito accese discussioni, come era lecito aspettarsi, l’uscita del romanzo di Walter Siti Bruciare tutto (Rizzoli, pp. 369, euro 20,00), comparso nei giorni che precedevano la Pasqua, il cui protagonista è un sacerdote di 33 anni (!) tormentato dal suo passato lontano (negli anni di studio aveva abusato di un bambino) e travolto dagli eventi drammatici del «presente» (un altro bambino, a lui affidato per la disastrosa situazione familiare dei genitori, inconsapevolmente lo «tenta»: don Leo resiste alla tentazione e il bambino si uccide). A fare riemergere l’abisso che caratterizza l’esistenza del protagonista è la ricomparsa del ragazzino di allora, nel frattempo diventato adulto ma sbandato, senza lavoro né casa. Insomma: un uomo che si trova a fare del bene in una parrocchia al limitare della «Milano bene», ma attraversata da crisi esistenziali dei singoli e di rapporti problematici nelle famiglie. Si avvicendano in questo quadro personaggi pieni di quattrini e disperati, migranti e devianti.

Non stupisce che, soprattutto a fronte delle descrizioni più crude e che si leggono con disagio, critici e commentatori si chiedano se e come è giusto che la letteratura (come anche il cinema) indaghi gli abissi della malvagità umana; e si può dire che quasi tutti convengano che il discrimine reale è quello tra il libro che «riesce», che diventa letteratura, e quello che «fallisce»: e allora rimane descrizione di crudeltà, gratuito elenco di nefandezze. Non mancano nella storia esempi di «libracci», ma non mancano neanche esempi illustri di capolavori della narrativa mondiale che si sporcano le mani nella malvagità umana. L’esempio che viene fatto è quello dei Demoni di Dostoevskij, dove a subire violenza da parte di un adulto è una bambina che poi si uccide – e uno dei primi libri del grande John M. Coetzee, sudafricano di famiglia metodista, premio Nobel per la letteratura nel 2003, Il maestro di Pietroburgo, ricostruisce un episodio di questo genere di cui si sarebbe reso responsabile lo stesso Dostoevskij.

A questo punto vengono in mentre tre considerazioni.

1. La letteratura ha sempre avuto a che fare con il male, perché quest’ultimo fa parte della storia umana. Tuttavia il personaggio del «religioso» ha sempre aggiunto qualcosa di drammatico agli eventi raccontati. Pensiamo ai tormenti del curato di campagna del Diario di Georges Bernanos (1936) o a quelli di Sotto il sole di Satana (1926) dello stesso autore. Ma anche alla personalità inquietante del vescovo luterano che sposa la vedova di Fanny e Alexander, protagonisti del film di Ingmar Bergman (1983), con i suoi metodi educativi al limiti della crudeltà. Più recentemente il critico e scrittore Antonio Monda ha raffigurato un sacerdote negli Usa legato a una donna da una relazione narrata senza mezzi toni. La pedofilia di un sacerdote è poi il più scabroso fra tutti i temi scabrosi che inquietano i credenti.

2. Tuttavia, quando si parla degli abissi del male (quel paradosso assoluto, che Karl Barth individuava nella distanza incolmabile fra Dio e l’uomo), sarebbe necessario (e questo non lo vedo nel libro di Siti) che non si suggerisse la domanda: dov’è Dio in tutto questo? (la domanda che prendeva corpo ad Auschwitz, e che tutto sommato viene fuori da questo romanzo); la domanda da porsi è dove sia il genere umano. Fino a dove vogliamo arrivare noi, non Dio. Non è Dio un «falso profeta che mi inganna», come dice don Leo (p. 257). Don Leo gli attribuisce la responsabilità eventuale di avergli rubato la giovinezza (p. 291), ma egli stesso l’ha rubata alla sua vittima.

3. Al di là delle differenze di valore, che possono essere soggettive (peraltro, se si parla di Dostoevskij e Bernanos e Bergman si parla dei più grandi), quello che segna il disagio di molti di fronte a testi come questo e soprattutto nei credenti è il mutare della società che ci sta intorno: Bernanos scrive tra le due guerre, cattolico conservatore, in un’epoca e in una Francia profondamente religiose; Bergman realizza i suoi capolavori negli anni ‘50 e ‘60, ma poi rinuncia a qualunque discorso su Dio (o meglio, vi rinunciano i suoi personaggi) nell’ultimo film, Sarabanda del 2003, uscito dopo che la Chiesa di Svezia ha rinunciato a essere chiesa di Stato e perde aderenti senza sosta. È cambiato il panorama: Dio serve alla nostra coscienza solo quando se ne ha bisogno, Gesù Cristo compare poco in questo libro nonostante le molte citazioni bibliche (e compare perché alla parrocchia del protagonista si chiede assistenza più che teologia): sarà un caso se alle citazioni bibliche non fa riferimento quasi nessuno degli interventi critici? Questi d’altra parte non rilevano nemmeno l’esergo tratto da Bonhoeffer: «La conoscenza del bene e del male è dunque separazione da Dio». I personaggi di questo libro spesso parlano dei propri peccati; ma il peccato è altra cosa, è una condizione. Dei primi ci si può anche sinceramente pentire; in una condizione siamo costretti a vivere, se la fede non ci apre uno spiraglio.