roswelloldpresbchurch

La chiesa presbiteriana diventerà più colorata?

Un declino lento ma costante, iniziato nel 1965, ha portato alla riduzione dei membri della Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti (PcUsa), una denominazione composta al 90% da bianchi (3,46% afroamericani, 2,94% asiatici, 1,4% ispanici), che rappresenta circa il 3% della popolazione statunitense.

Nell’ultimo anno, però, questo calo pare avere rallentato un po’, dicono i dati del Rapporto statistico 2016. Con una perdita di quasi 90.000 persone, la più bassa dal 2011, la chiesa si attesta alla soglia di 1.482.767 membri.

Se le perdite (trasferimenti ad altre denominazioni, decessi, cancellazioni) sono calate, tuttavia, lo stesso è avvenuto per i nuovi ingressi, con una diminuzione dei battesimi di bambini (da 13.427 a 11.911), solo in parte compensata dall’aumento dei battesimi di adulti (da 4.169 a 4.775).

La diminuzione dei membri è legata anche alla perdita di 191 comunità, di cui 99 passate ad altre denominazioni (per un totale di quasi 30.000 membri). Alla diminuzione dei membri di chiesa si accompagna un calo nel numero complessivo dei pastori in attività (- 356) e delle consacrazioni (-34).

 

Una situazione tragica?

Non la pensa così, anzi guarda fiduciosamente al futuro, il rev. J. Herbert Nelson, direttore dell’Office of public Witness della PcUsa a Washington, che si occupa di promuovere le azioni di giustizia sociale dell’Assemblea generale attraverso il lavoro congiunto con il governo federale, e al tempo stesso realizzando iniziative con le singole chiese e strutture, quali convegni, incontri e formazione. «La perdita di membri sta rallentando, e le comunità si stanno rifocalizzando sulla loro missione», ha scritto sul sito della Presbyteriam Church commentando i dati del Rapporto statistico.

«Si sperimentano nuove forme di leadership e modi di vivere la chiesa, e la presenza di giovani adulti che esprimono il desiderio di servire in missioni sia locali sia internazionali dimostra che a dispetto di coloro che proclamano la morte della Chiesa presbiteriana rimaniamo un partner ecumenico e interreligioso valido sia a livello locale sia con la nostra testimonianza nel mondo. La nostra sfida è vedere le opportunità che stanno davanti a noi: abbiamo molto più di quanto riconosciamo».

La speranza del rev. Nelson è che la chiesa abbia il coraggio di fare «mosse audaci»: in particolare fa riferimento all’ideazione di nuove strategie volte all’inclusione di comunità etniche formate da immigrati, ora semplicemente «associate» alla PcUsa, allo status di membri effettivi, qualora soddisfino i requisiti necessari per farne parte. Molte di esse già partecipano alla vita della PcUsa, ma non sono completamente integrate, non avendo (per esempio) diritto di voto. Questa situazione, spiega Nelson, «crea la percezione di una distinzione su base razziale che limita la piena partecipazione di queste comunità, i cui numeri spesso superano di gran lunga quelli dei membri di comunità storiche».

Il futuro è nella multietnicità

Il pastore è pronto a favorire e a diffondere questo nuovo campo di evangelizzazione tra gli immigrati, che peraltro già conoscono bene la Chiesa presbiteriana grazie alle sue missioni all’estero. «Gli immigrati non sono stranieri», dichiara: «Quindi non dobbiamo considerarli presbiteriani di un’altra categoria, ma accoglierli come presbiteriani uguali a noi. Solo con questo sforzo possiamo sperare di mantenere l’impegno (fallito) di aumentare la composizione etnica nelle nostre chiese del 20% entro il 2010».

Il suo appello è rivolto alla PcUsa, ma non suona stonato a orecchie italiane, considerando il percorso che molte chiese metodiste e valdesi stanno vivendo attraverso il percorso «Essere chiesa insieme», insieme a sorelle e fratelli provenienti da altri paesi: «Se vogliamo crescere, in futuro, siamo sfidati a diventare una denominazione multietnica: è imperativo quindi accogliere i nuovi migranti come membri delle nostre comunità; approfondire il contatto con le chiese partner in tutto il mondo e con coloro che hanno beneficiato del loro ministero; ascoltare le idee dei nostri ragazzi e giovani rispetto alla loro visione del futuro della chiesa; formare una nuova generazione di leader; impegnarci in modo creativo nell’invitare le persone a un’esperienza di trasformazione, nel culto e nella missione. E assumerci il rischio di chiedere alle persone fra noi, come Gesù a Bartimeo, “Che cosa vuoi che io faccia per te?” (Marco 10,51). Questa è una domanda potente, quando è offerta con amore».