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Lo scacchiere dell’Isis nelle Filippine

Ormai dal maggio 2017 nelle Filippine proseguono gli scontri ad opera di alcuni gruppi fondamentalisti islamici, che controllano soprattutto Marawi City, nel sud del paese, e da tempo affiliati al gruppo Stato Islamico. Già nel novembre del 2016 uno dei gruppi terroristi aveva invaso il villaggio di Butig, duecento uomini avevano occupato il territorio quattro giorni prima di essere battuti dall’esercito filippino. Ma a Marawi l’occupazione va avanti da molti mesi con centinaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Non era scontato che Daesh riuscisse a mettere radici anche nelle Filippine, dove però le situazioni di tensione locale, forze separatiste e frustrazioni post coloniali rendono il paese il brodo di coltura ideale per i fondamentalismi. Ne abbiamo parlato con Fabio Polese, giornalista e fotoreporter, tornato da poco da quel contesto. Tra poche settimane uscirà un libro sulle sue esperienze in questi viaggi.

La narrazione su Isis o Daesh si concentra molto sul Medio Oriente, sul suo aspetto territoriale in Siria e in Iraq. Il problema sembra però spostarsi nel sud est asiatico. La sua esperienza nelle filippine conferma questa impressione?

«Sì, confermo questa impressione. In una mappa recente si attestava che attualmente l’esercito di Damasco controlla circa l’85% del territorio Siriano, un enorme passo in avanti in confronto al 2014. Sicuramente questa perdita di territorio del gruppo Stato Islamico in Medio Oriente ha fatto sì che l’estremismo cerchi altri posti da utilizzare come base. Il sud est dell’Asia, in particolar modo le Filippine, sono sempre state un terreno fertile per tutti gli islamisti. Da anni Mindanao, a sud del paese, è stata teatro di una guerra contro il governo di Manila per la richiesta di autonomia, portata avanti da diversi gruppi armati musulmani. Alcuni di questi sono molto grandi, come il Moro Islamic Liberation Front, che secondo l’autorità avrebbe circa 12 mila uomini armati pronti a combattere. In realtà potrebbero essere molti di più: due anni fa, quando sono stato nella loro roccaforte e ho parlato con il loro leader, dicevano di essere almeno il doppio. Quest’isola è abituata alla guerra: fin dagli anni ‘90 l’estremismo islamico si è avvicinato a questi gruppi, prima con Al Qaeda, e ora con l’ideologia dell’Isis, alcuni di questi gruppi si sono radicalizzati e hanno giurato fedeltà allo Stato Islamico. In particolare le organizzazioni Maute e Abu Sayyaf, che hanno occupato militarmente da oltre 3 mesi la città di Marawi, di oltre 200 mila abitanti. L’esercito sta provando a liberarla, ma non è facile».

Daesh fa presa non solo Filippine, dunque?

«Non solo nelle filippine, anche Indonesia, Malesia o il Bangladesh, che hanno avuto una tradizione musulmana tranquilla, fino a qualche anno fa. Non ci si aspettava, per esempio, un attacco come quello che ci fu a luglio del 2016 al ristorante di Dacca. La situazione è abbastanza complessa, l’idea dello Stato Islamico si sta spostando, alcuni video di propaganda indicavano il Mindanao proprio come il nuovo Califfato, e invitavano tutte le persone che l’isola a combattere insieme a questi gruppi».

L’estremismo e la ribellione in alcune aree è presente da anni. È rilevante che ci sia l’Isis o l’importante è che ci sia sempre qualche forza nuova che proponga nuove forme di conflitto?

«È probabile, sono rientrato da poco da Marawi, abbiamo parlato con le persone che sono state costrette a scappare dalle loro case, che ora sono distrutte. Diciamo che la percezione è che alcuni condannino questi movimenti, ma altri dicono di loro che sono dei fratelli che stanno sbagliando. Si è arrivati in questa situazione perché i governi hanno sottovalutato questa situazione e non hanno mai voluto concludere i trattati di pace con queste milizie armate. La gente è stanca e la situazione ora potrebbe davvero scoppiare: anche se la città venisse liberata domani, l’azione che hanno fatto questi due gruppi ha una portata molto vasta e farà si che molte altre persone imbraccino le armi e si uniscano a queste milizie».

Non sembra che ci siano molte vie d’uscita. Una figura come Duterte, molto decisa nel combatere alcuni movimenti, ha una risposta a un fenomeno del genere?

«Difficile dirlo: come dicevamo Duterte, come i suoi predecessori, ha sottovalutato la situazione in Mindanao e ora la situazione è quasi irrecuperabile. Duterte sta combattendo militarmente questi gruppi anche nell’isola di Basilan, che si dice essere la roccaforte di Abu Sayyaf, ma il problema è che l’esercito filippino non è abituato a una campagna così grande, di questo tipo e soprattutto in territorio urbano. Ecco perché non riescono a liberarla completamente, se non in alcuni quartieri. Secondo fonti ufficiali sono appena 70 miliziani che tengono in ostaggio queste zone, mentre i militari sono circa 7000, evidentemente non addestrati per situazioni di questo tipo. Per ora ci sono stati più di 700 morti, quasi 400 mila persone sfollate. Da una parte Duterte cerca di dare una risposta militare, dall’altra sta cercando di riaprire i trattati con gli altri gruppi che non appoggiano lo stato islamico. Inoltre in Mindanao sono arrivati molti combattenti stranieri, diversi miliziani trovati morti provenivano dall’Indonesia, dalla Malesia e da alcune regioni della Cecenia».