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Un suicidio in carcere è un fallimento per tutti

Ogni suicidio in carcere rappresenta una sconfitta per l’istituzione carceraria stessa. Ogni volta che un detenuto si toglie la vita in una cella viene meno quello che dovrebbe essere il principio di base del sistema penale, cioè rieducare e reinserire in società chi ha commesso un reato per il quale deve pagare un prezzo.

In particolare, in questi giorni si è tornati a parlare di un fatto avvenuto lo scorso febbraio, quando un ragazzo di 22 anni, Valerio Guerrieri, si era suicidato nel carcere di Regina Coeli, il principale istituto penitenziario di Roma. Si trattava della decima persona che, a quel punto dell’anno, decideva di togliersi la vita in una struttura carceraria. A distanza di otto mesi e altri 35 suicidi di persone private della libertà in tutta Italia, su quella vicenda si è espressa la Procura di Roma, che ha chiesto il rinvio a giudizio per due agenti penitenziari, colpevoli secondo il pubblico ministero Attilio Pisani di non aver controllato il detenuto. Se lo avessero fatto, afferma infatti il pm, «non avrebbe mai avuto abbastanza tempo per legarsi un lenzuolo intorno al collo e morire soffocato».

Secondo Michele Miravalle, avvocato e coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle condizioni detentive dell’associazione Antigone, i due agenti «sono dei classici capri espiatori per aver semplicemente ritardato di qualche minuto l’intervento, ma una volta che Valerio aveva già sostanzialmente messo in atto il suicido».

Valerio Guerrieri, che soffriva di patologie psichiche, era stato arrestato il 3 settembre del 2016 per resistenza, lesione e danneggiamento, quindi gli erano stati applicati gli arresti domiciliari. Poco dopo, la sua abitazione era stata ritenuta non idonea, e quindi era stato portato a Regina Coeli. Dopo una serie di modifiche disposte dal tribunale di Roma, che avevano visto il ragazzo entrare e uscire da diverse strutture, il 14 febbraio di quest’anno il perito aveva confermato l’esistenza di uno scompenso tale da rappresentare un concreto rischio di suicidio. Tuttavia, a causa della lista d’attesa per l’ingresso in una Rems, Valerio Guerrieri era rimasto in carcere, dove dieci giorni dopo si era ucciso. Al di là della necessità di individuare eventuali responsabili diretti della mancata sorveglianza, rimane il dubbio che fosse veramente necessario tenere il 22enne all’interno delle mura di un carcere. «Certo che no», continua Michele Miravalle. «Speriamo che l’inchiesta lo accerti, anche se i risultati dell’altro giorno non ci rendono troppo ottimisti».

Perché si è arrivati a questo punto?

«Il problema è tutto ciò che è avvenuto prima. C’è stato un oscuro scaricabarile, difficile da spiegare, tra l’istituzione penitenziaria e l’istituzione sanitaria. Quel che è certo è che persone come Valerio, che aveva già un trascorso anche da minorenne di entrata e uscita dalle istituzioni sanitarie, di presa in carico da parte della sanità, in carcere non ci dovevano stare e questo è un dato di fatto».

Possiamo considerarlo un caso isolato?

«No. Diciamo che è la punta dell’iceberg, forse una delle storie più tragiche come epilogo, ma che purtroppo vediamo ripetersi in tutta Italia. I motivi sono vari, ma tra questi dobbiamo sicuramente citare la mancanza di dialogo tra la psichiatria, in particolare la psichiatria del territorio, sempre più privata di mezzi e risorse, e giudici e forze dell’ordine, che hanno ancora una visione eccessivamente repressiva in questo campo. Ecco, invece di coordinarsi nell’ottica della cura della persona con le istituzioni sanitarie, la giustizia preferisce scaricare sul carcere questi problemi, ma il carcere è inadeguato sul piano strutturale e sul piano dei servizi offerti per affrontare i casi come quello di Valerio».

Questa vicenda ci deve far pensare che il passaggio dagli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, alle nuove strutture, le Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, sia stato un fallimento?

«Forse non sarei così severo, non parlerei di fallimento nel passaggio dagli Opg alle Rems. Ecco, direi che probabilmente tutte le istituzioni coinvolte semplicemente non stanno remando nella stessa direzione. Con la Legge 81 del 2014 si chiude la vicenda degli Opg, una vicenda orribile di cui tutti abbiamo visto le immagini trasmesse in diretta televisiva ai tempi della commissione presieduta da Ignazio Marino. Tuttavia e la legge è molto chiara su questo punto, le Rems non devono ospitare tutti quelli che stavano negli Opg, ma soltanto quelle persone per cui ogni altra misura sul territorio non è in grado di curare il paziente. Il problema è proprio qui, in questo inciso della legge, perché esistono le Rems, ma anche tutta un’altra serie di servizi, a partire dalle comunità e i gruppi appartamento sul territorio in tutta Italia che forse non sono stati adeguatamente stimolati e non vengono adeguatamente presi in considerazione. In questo momento si preferisce pensare che le Rems siano uguali agli Opg, per cui in maniera un po’ frettolosa viene disposto il ricovero in Rems quando probabilmente esisterebbero altre strutture sul territorio, in grado di ospitare il disagio psichico in modo più efficace. Probabilmente, e questo è anche il caso di Valerio, se ci fosse stato un corretto dialogo tra la magistratura che deve disporre la misura e i servizi territoriali psichiatrici, probabilmente non avremmo avuto questo epilogo tragico. Detto questo, però, la legge che ha destituito gli Opg è comunque un buon punto di partenza, però è da costruire, da riempire di significato».

Immagine: il Regina Coeli, via Flickr