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La Corte di Assise di Milano ha riconosciuto le torture nei campi di detenzione in Libia

I campi di detenzione in Libia sono luoghi in cui ogni diritto, anche il più elementare, viene calpestato. Si tratta di luoghi di tortura e di costante violazione della dignità degli esseri umani. Dalla scorsa settimana queste affermazioni non appartengono più soltanto al campo della verità storica e della testimonianza di giornalisti e operatori che hanno potuto vedere con i loro occhi questi spazi e conoscere le vittime, ma è anche una verità giudiziaria. La sentenza della Corte di Assise di Milano, la più alta corte di primo grado nel nostro ordinamento, ha infatti riconosciuto che nei campi libici sono avvenute torture e omicidi.
«Il punto di partenza – racconta l’avvocato Piergiorgio Weiss, che ha patrocinato la causa – è stato fortuito, potremmo dire casuale». La storia di questo caso, in effetti, nasce da un riconoscimento: alcuni cittadini somali, che si trovavano nell’hub Sammartini di Milano, dove i cosiddetti “transitanti” ricevono una prima accoglienza e si preparano a intraprendere un nuovo viaggio verso il nord Europa, «hanno riconosciuto – spiega Weiss – in un loro connazionale, che si trovava casualmente sulla piazza di fronte alla stazione centrale di Milano, il loro aguzzino: era il gestore di uno dei campi in cui erano stati detenuti». «L’hanno riconosciuto – prosegue – e hanno trovato il coraggio di denunciarlo, così è stato arrestato ed è stato possibile arrivare a questa sentenza così importante».

Riassunto in poche parole, il percorso potrebbe sembrare breve, semplice e lineare, eppure è vero l’esatto contrario, a partire dall’inizio: per poter partire, infatti, è stato necessario trovare la collaborazione del ministero della Giustizia. Il motivo di questa necessità è dovuto al fatto che, trattandosi di una serie di reati commessi all’estero, in Libia, e in cui tanto le vittime quanto i carnefici sono cittadini non italiani, c’era bisogno di un’autorizzazione speciale. «La procura di Milano – spiega Weiss – ha richiesto questa autorizzazione e il ministro l’ha concessa. Questo ha fatto sì che si potesse celebrare in Italia questo processo». La motivazione del parere positivo del ministro Orlando va cercata, come si legge in una nota dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che si era costituita parte civile nella causa, «nella gravità dei fatti in giudizio e nelle condizioni di insicurezza e il livello di violenze riscontrato in Libia». Queste condizioni, confermate dalle Nazioni Unite e da numerosi rapporti indipendenti, sottolineano la mancanza delle condizioni minime di accesso ai diritti fondamentali necessari. «Io però ci vedo un po’ di incoerenza – commenta l’avvocato Weiss – perché se una parte del governo, il ministro della Giustizia, ha richiesto che ci si occupasse di queste situazione, è un po’ strano che un’altra parte del governo, il ministro dell’Interno, adotti certe politiche migratorie».

Durante il processo sono emerse realtà che, proprio alla luce del coinvolgimento italiano nell’esternalizzazione della frontiera, non possono lasciare indifferenti: «non sono parole mie, ma del pubblico ministero: quanto raccontato dai testimoni “ha fatto pensare a dei lager nazisti”. Le efferatezze, le torture, gli stupri e gli omicidi, perché sono stati riconosciuti anche tali, e da lì la sentenza all’ergastolo comminata all’imputato, è difficile che lascino indifferenti», ha spiegato ancora l’avvocato Weiss. È la prima volta che un tribunale italiano riconosce queste costanti violazioni dei diritti umani, fatte di torture, violenze sessuali ripetute, dell’uccisione di tutti quelli che non ricevono dai familiari il denaro richiesto dai trafficanti, addirittura in alcuni casi l’esposizione dei corpi dei soggetti morti, per ottenere un effetto deterrente. Secondo Asgi, «alla luce di questa condanna appaiono ancor più gravi le conseguenze delle scelte politiche attuate dall’Italia e dall’Unione europea e volte al respingimento dei migranti in Libia attraverso accordi con le autorità locali».
Rinviare le persone in luoghi in cui la loro sicurezza e la loro vita è minacciata in modo sistematico, in effetti, è una contraddizione così grande che, considerando che il ministero dell’Interno non può ignorare quanto stabilito da una corte italiana in un processo appoggiato dal ministero della Giustizia, si potrebbe considerare il nostro governo come corresponsabile di queste condizioni. Ma questa sentenza, che parla di Libia, in realtà va oltre: «è un dispositivo – afferma Weiss – che necessariamente genererà una motivazione che non potrà fare a meno di prendere in considerazione non solo la parte finale, cioè il campo di detenzione oggetto della sentenza, ma anche il percorso che tutte le vittime hanno compiuto. Di fronte alla Corte d’Assise hanno testimoniato in 17, e tutti hanno vissuto la stessa esperienza: la partenza dalla Somalia, il passaggio in Kenya, poi il Sud Sudan, il Sudan e infine la Libia. Queste persone passano delle frontiere e le attraversano presumibilmente in modo illegale, perché pagano 7000 dollari per compiere questo viaggio della speranza. Immagino che parte di questi danari vadano non solo nelle tasche degli organizzatori dei viaggi, ma che si disperdano anche in diverse frontiere internazionali».

Negli stessi giorni in cui a Milano si concludeva questo processo, anche il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio D’Europa, Nils Muiznieks, si è occupato della Libia, chiedendo chiarimenti al ministro degli Interni Marco Minniti in merito alla collaborazione dell’Italia con la guardia costiera di Tripoli, ricordando al Ministro che l’azione dell’Italia in acque di competenza libica non la sottrae alla responsabilità internazionale per la violazione degli obblighi derivanti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. A oggi non ci sono risposte, ma solo domande: come è stato possibile ridurre in maniera così massiccia il soccorso e lo sbarco dei migranti provenienti dalla Libia? Sono legittimi gli atti giuridici e i comportamenti del Governo italiano? È possibile, in termini giuridici, considerare responsabile il Governo italiano del trattamento riservato ai migranti dalla polizia libica dopo il loro arresto in acque internazionali? «Mi auguro – conclude Weiss – che questo sia solo un punto di partenza. Lo dico con un po’ di orgoglio: non tutte le vittime hanno avuto il coraggio di costituirsi parte civile, tutti hanno testimoniato ma tanti non sono riusciti a reggere il peso di essere una parte processuale. Forse Asgi è riuscita a dare voce anche a loro».