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Lo Yemen viene soffocato in silenzio

Il mese di novembre potrebbe essere ricordato come il momento in cui la guerra in Yemen ha raggiunto un nuovo livello, avvicinandosi sempre di più alla dinamica che abbiamo visto nel conflitto siriano. Il blocco dei porti e degli aeroporti del Paese, portato avanti dalla coalizione a guida saudita, potrebbe essere il punto di svolta verso un’ulteriore escalation. Infatti, quella che già veniva considerata la scorsa estate la più grave crisi umanitaria del mondo, oggi affronta anche l’impossibilità di comunicare con l’esterno.

Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia, racconta che nel Paese oggi «ci sono 400.000 bambini gravemente malnutriti, che hanno bisogno di assistenza umanitaria immediata e urgente e che rischiano di morire da un momento all’altro a causa della mancanza di vie d’accesso agli aiuti. Gli aiuti ci sono, perché i nostri operatori, insieme a quelli di altre organizzazioni internazionali, sono presenti e sono posizionati, ma non hanno la possibilità di accedere nelle zone più a rischio. Non essendoci questa possibilità la situazione sta degenerando».

Secondo le Nazioni Unite sono 7 milioni le persone sull’orlo della carestia, e se il blocco non verrà rimosso quanto prima altri 3 milioni di persone si aggiungeranno a questo quadro, che oltretutto colpisce un Paese che era già considerato il più povero del mondo arabo prima della guerra. Le ostilità tra il governo supportato dall’Arabia Saudita e i ribelli Houthi, che sostengono l’ex presidente Saleh e sono appoggiati dall’Iran, hanno cancellato tutte le strutture sanitarie e i pochi contatti verso l’esterno del Paese.

«A questo dobbiamo aggiungere una situazione che rende il quadro ancora più grave», spiega ancora Iacomini, «ovvero quella sanitaria. Nel Paese è scoppiata un’epidemia di colera quest’estate, iniziata con poche centinaia, poche migliaia di casi, e oggi nel silenzio generale si è arrivati a circa un milione di casi sospetti di colera in Yemen, con oltre 2.000 morti. Di questi purtroppo la metà sono bambini».

Il punto di svolta che sta trascinando il Paese ancora più a fondo è arrivato lo scorso 4 novembre, quando un missile è stato intercettato vicino all’aeroporto internazionale King Khaled, a nord della capitale saudita Riyadh. Per tecnologia, direzione e momento storico, è stato facile riconoscere in quell’attacco la mano dei ribelli Houthi, e dietro di loro quella di Teheran, considerato dai sauditi la più grande minaccia all’equilibrio regionale. In risposta al lancio del missile, Riyadh e la coalizione militare di cui si è messa a capo nel marzo del 2015 ha messo in atto un blocco di tutte le vie d’accesso terrestri, marittime e aeree dello Yemen, azzerando in pochissmi giorni l’arrivo di aiuti umanitari e di altri beni di prima necessità per i cittadini yemeniti.

Tuttavia, di fronte a un conflitto in cui la maggior parte delle vittime sono civili e che si innesta su una situazione già difficile di per sé, l’ipotesi di arrivare a una soluzione tramite negoziati non sembra nemmeno presa in considerazione. Anche solo l’idea di un cessate il fuoco per consentire la fornitura di aiuti umanitari a milioni di persone vulnerabili per ora sembra soltanto un’utopia. «Questo conflitto è arrivato al suo terzo anno – prosegue Iacomini – e anche questo ci fa pensare che ci troviamo di fronte a una nuova Siria. La Siria nei primi tre anni era un conflitto esattamente come questo: ignorato dai mass media, ignorato dalle grandi potenze internazionali, ma soltanto in modo fittizio, perché dentro vi combattevano una guerra geopolitica evidente, e soprattutto un conflitto che quando arrivò al suo terzo anno esplose davanti agli occhi del mondo con i suoi numeri impressionanti di profughi, di morti e di disperazione».

Se la strada tracciata è quella della Siria, per lo Yemen c’è poco da sperare. L’ingresso del conflitto siriano nel terzo anno fu segnato dalle “linee rosse” che la comunità internazionale tracciava come punti di non ritorno per un intervento armato, ritornando sui propri passi ogni volta che una di queste linee veniva varcata. Per lo Yemen non si parla neppure di “linee rosse”, perché forse non ci sarebbero neppure gli strumenti per verificarne il superamento. «Proprio per questo – continua Iacomini – noi non siamo in attesa di risoluzioni del Consiglio di sicurezza, ma siamo in attesa di prese di posizione a livello internazionale. Questa è una guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran sulla pelle di questa popolazione, una battaglia di posizionamento strategica in questo Paese. Ci aspettiamo che in termini umanitari le due grandi potenze in campo facciano un passo indietro e consentano almeno l’ingresso degli aiuti. C’è bisogno di un confronto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e all’interno delle Nazioni unite stesse per far sì che di fronte al mondo questo conflitto assuma le proporzioni giuste e convinca veramente le potenze coinvolte a intervenire, perché siamo di fronte a numeri che non hanno precedenti e a una popolazione stremata».

Per quanto, almeno a livello di clamore mediatico, possa sembrare un conflitto minore, questa impressione non è smentita soltanto dai numeri di chi è a rischio, ma anche dal tipo di violazioni che è possibile riscontrare. In questi anni di guerra sono stati bombardati scuole e ospedali in tutto il Paese, e in un rapporto di fine 2016 Unicef testimoniava almeno 800 casi di bambini reclutati come soldati, tanto sul fronte degli Houthi quanto su quello saudita.

Eppure di questa vicenda si parla poco, non solo sui giornali ma anche in politica, così come tra cittadini. L’assenza di grandi flussi migratori dallo Yemen verso l’Europa rende meno visibili e dirette le ricadute del conflitto, che si abbatte su una popolazione che non ha una via di fuga verso nord e che può soltanto attraversare il Mar Rosso e raggiungere due tra i luoghi meno ambiti del mondo, Eritrea e Somalia. «Bisogna fare attenzione», avverte però Andrea Iacomini, perché «ogni volta che la politica si è distratta il problema in un modo o nell’altro è poi arrivato a casa nostra. La questione dello Yemen è legata alla penisola arabica, però perché non immaginare che possa avere anche dei risvolti politici sotto altri punti di vista e che magari coinvolga la nostra politica prima o poi? In un modo o nell’altro a casa nostra queste questioni arrivano. La Siria sembrava tanto lontana e invece poi è arrivata in tutto il suo impeto, la sua forza nel Mediterraneo. La politica si deve svegliare».