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Essere legge a se stesso: il suicidio del generale Praljak

Slobodan Praljak era un intellettuale. Fu anche un politico, un generale, un criminale di guerra e oggi anche un martire del nazionalismo croato. Il 29 novembre scorso, con un gesto teatrale davanti alle telecamere, l’ex-generale croato è morto dopo aver bevuto una fiala di veleno al Tribunale internazionale dell’Aja alla fine del processo che lo condannava come criminale di guerra.

Siamo abituati a pensare ai criminali di guerra come a delle persone grette, ignoranti, prive di umanità e quindi prive di ciò che di alto ha prodotto l’umanità. La filosofa Hannah Arendt parlò della banalità del male nella sua cronaca del processo a Otto Adolf Eichmann, funzionario dell’atrocità nazista. Qui siamo di fronte a un plurilaureato, professore, direttore di teatri, artista, regista e documentarista, parte integrante dell’intellighenzia di Zagabria. A mio avviso ci sono tre elementi in questo gesto.

Il primo e più importante è la rivendicazione del proprio ruolo di eroe nazionale. Praljak era una figura di secondo piano. Io stesso ho dovuto fare una piccola ricerca per avere più informazioni su qualcuno che per me era poco più che un nome (ma fu lui a ordinare l’abbattimento del ponte di Mostar). «Praljak non è mai stato un personaggio di primo piano né dal punto di vista strategico né da quello intellettuale… non divenne mai un eroe popolare» (Il Post, 30 nov. 2017). Rigettato dalla storia dei vincenti fatta dalle sentenze dell’Aja, con questo gesto Praljak si è ripreso il posto che pensava di meritarsi nella storia del proprio paese.

Il secondo elemento, quello più romantico, è il teatro. Praljak era un intellettuale, un artista, un uomo di teatro e di televisione. Il suicidio da solo non poteva essere sufficiente a un uomo istrionico come lui. Il gesto teatrale ha una funzione nel contesto dell’immaginario intellettuale e del mito popolare, e – cosa che non è passata inosservata – richiama alla mente paralleli mitici e storici, da Cleopatra a Giuda, a Hermann Goering. Praljak guidò alla guerra intellettuali e artisti che si consideravano patrioti, non poteva mancare un gesto per loro, per qualcuno che lo avrebbe capito e spiegato.

Il terzo elemento è morale, Praljak nega e si sottrae al giudizio: «Non sono un criminale di guerra e con sdegno respingo la sentenza». Il generale intellettuale preferisce essere vittima del proprio giudizio morale che lo assolve, piuttosto che del giudizio morale altrui che lo condanna. Il giudizio decretato dall’Aja è quello della legge, ma indubbiamente è anche il giudizio della storia. Praljak non fu solo un generale che combatté servendo il proprio paese, ma si dimostrò un criminale di guerra guidato da propositi disumani, «contro l’umanità», appunto. È questo giudizio morale che il generale sembra negare, e quindi egli vuole apparire come un uomo le cui qualità intellettuali, guida della sua azione, non possono essere messe sotto lo scrutinio morale altrui.

Qui siamo di fronte all’uomo autonomo, che è legge a se stesso, che rivendica alla propria coscienza la competenza della giustificazione morale della propria azione. Il gesto di Praljak mette in luce come l’autogiustificazione sia totalmente inconsapevole o incurante dei pericoli della razionalizzazione, dell’ideologia, della cattiva fede, dell’autoinganno, dell’ipocrisia. In questo caso, una giustificazione della violenza.

Se avesse perseguito la giustificazione per fede, propria di chi si sottopone al giudizio di Dio e lo reputa giusto, e che perciò non rimette alla propria coscienza, ma alla propria fiducia nella grazia di Cristo, la giustificazione delle sue azioni, forse Praljak avrebbe potuto sperimentare l’horror sui e trovare la vita invece della morte.