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Mar Egeo, vicolo cieco

Quella che i migranti vivono a Lesbo, una tra le principali isole dell’Egeo nordorientale, «non è una vita per esseri umani». Queste le parole di un profugo siriano intervistato dall’agenzia stampa Reuters nei giorni scorsi sull’isola di Lesbo. La sua non è una storia isolata, ma è quella che caratterizza la gran parte dei migranti che negli ultimi due anni hanno cercato di percorrere la cosiddetta “rotta balcanica”, formalmente chiusa dal marzo del 2016 in seguito agli accordi tra i governi dei Paesi dell’Unione europea e la Turchia.

Per queste persone, in gran parte di nazionalità siriana, irachena e afghana, attraversare il braccio di mar Egeo che separa la costa turca dalle isole greche significa arrivare, nella migliore delle ipotesi, in campi profughi sovrappopolati allestiti in strutture inadeguate. È il caso, per esempio, del campo di Moria, sull’isola di Lesbo, che si trova in una base militare abbandonata: concepito per ospitare al massimo 3.000 persone, ha visto crescere tutto intorno accampamenti di fortuna, al punto che oggi sull’isola si trovano circa 8.500 persone bloccate in un luogo che non ha niente da offrire loro. In totale, nelle isole di Lesbo, Chios, Kos, Samos e Leros, le più grandi tra quelle vicine alla Turchia, sono 15.000 le persone ferm in una specie di limbo. «Purtroppo – ricorda Bianca Benvenuti, Advocacy Officer di Medici Senza Frontiere – sono moltissimi anche i bambini e le famiglie e non è molto semplice definire un quadro delle persone che si trovano bloccate perché abbiamo una grandissima diversità».

Con circa 70 nuovi arrivi ogni giorno, è difficile pensare che la situazione possa migliorare senza un radicale cambio di strategia, ma il governo greco sembra non voler considerare l’opzione di migliorare le condizioni di permanenza sulle isole, affermando di temere di creare un fattore di attrazione per i profughi.

In realtà è l’accordo del 2015 a bloccare qui tutte queste persone, che prima percorrevano la rotta balcanica verso la Germania o la Svezia. Secondo quel patto, recentemente definito dal primo ministro greco Tsipras come «doloroso ma necessario», chiunque raggiunga la Grecia dalla Turchia e non sia nelle condizioni di ottenere protezione internazionale va rimandato indietro. Anche se gli arrivi sono crollati nel 2016 proprio per via dell’accordo, che ha visto anche l’allestimento di campi profughi in Turchia e ha rappresentato un forte disincentivo alla migrazione verso l’Europa, il protrarsi delle crisi mediorientali ha fatto sì che le partenze aumentassero di nuovo. Negli ultimi quattro mesi, gli arrivi sulle isole greche sono aumentati del 27% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

All’inizio di dicembre, l’organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere ha sottolineato che per migliaia di persone è concreto il rischio di una crisi umanitaria, dovuta a condizioni climatiche difficili e a strutture d’accoglienza inadatte, prive di riscaldamento, che rendono impossibile garantire a tutti condizioni dignitose. Allo stesso modo, non vengono fornite le necessarie cure mediche, tanto fisiche quanto psicologiche. Sempre più richiedenti asilo soffrono di depressioni, al punto che i tentativi di suicidio sono in costante aumento, così come i casi di stupro e le aggressioni immotivate.

Proprio per cercare di mitigare queste condizioni, Medici Senza Frontiere ha deciso di attivare una clinica mobile a Lesbo, al di fuori del campo di Moria. «Con la clinica mobile – spiega Bianca Benvenuti – si cercherà di portare aiuto medico alle persone che vivono all’interno della struttura, che è sostanzialmente di tipo detentivo». Oltre a quest’isola, Medici Senza Frontiere è presente anche sull’isola di Samos, sempre con un’unità mobile, così come nella regione dell’Epiro e ad Atene, dove ha aperto un centro diurno e una clinica per le vittime di tortura.

In realtà l’accordo Ue-Turchia non vieta espressamente ai richiedenti asilo di lasciare le isole dopo aver presentato la richiesta d’asilo, ma il processo richiede mesi e non porta comunque da nessuna parte. Secondo le testimonianze raccolte da Unhcr, sono ancora molti i residenti del campo di Moria che affermano di non sapere nulla dell’accordo Ue-Turchia, segno del fatto che nei campi turchi non sono state effettuate le necessarie comunicazioni. Inoltre, alcuni tra i migranti intervistati da Reuters denunciano proprio le condizioni inaccettabili al di là dell’Egeo. «Nessuno metterebbe la propria vita in pericolo attraversando il mare su un gommone – racconta una ragazza siriano-palestinese – se si potesse rimanere a vivere in Turchia dignitosamente».

L’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha dichiarato nei giorni scorsi di aver ravvisato una generale resistenza nello spostare le persone dalle isole alla terraferma, ma il ministero dell’Immigrazione greco ha finora preferito non rispondere a queste critiche. «Noi – ricorda Bianca Benvenuti di Msf – manteniamo un rapporto collaborativo con le istituzioni locali, è necessario per far sì che il nostro lavoro sia efficace. Il governo greco dalla firma dell’accordo Ue-Turchia si è dimostrato consapevole della situazione che stava degenerando soprattutto sulle isole, ma dall’altra parte anche molto incline a collaborare con la politica del bloccare i migranti sulle isole. Certo è che deve anche fare i conti con il malessere della popolazione locale, specialmente della popolazione delle isole, mentre da un altro lato la società civile continua a denunciare insieme anche alle associazioni che operano nel territorio le condizioni di vita di questi migranti. La popolazione locale è stanca di vedere le proprie isole trasformate sostanzialmente in prigioni a cielo aperto, quindi senza dubbio più va avanti il tempo più il governo greco dovrà dare una risposta, ma di certo non sembra incline a farlo».

Per chi si trova nei campi, l’intenzione rimane quella di lasciare le isole e arrivare sulla terraferma, dove è possibile cercare condizioni di vita migliori. «Le possibilità – conclude però Bianca Benvenuti – non sono molto alte, questo anche a seguito della fine del fallito processo di ricollocamento dalla Grecia all’Unione europea. Senza dubbio la prospettiva di essere trasferiti dalle isole alla terraferma è comunque una prospettiva che accende le speranze di qualcuno, perché le condizioni delle isole sono disumane, ed è proprio vedendo queste condizioni che riusciamo a capire quali sono i costi umani del fallimento delle politiche europee e i costi umani dell’accordo Ue-Turchia».

This is not an exit, “questa non è l’uscita”, era la scritta che campeggiava su una porta del locale in cui si chiude il romanzo American Psycho, di Bret Easton Ellis, uno tra i libri più influenti degli anni Novanta. Oggi, invece, è come se questa scritta si trovasse in tutti i luoghi di accesso all’Unione europea, “porte” che non sono né di uscita dalla propria condizione né, tantomeno, di ingresso in una nuova vita.

 
Foto: esterno del campo di Moria, Catherine Lenoble