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Quattro anni senza pace in Sud Sudan

Il 9 luglio del 2011 il sogno dell’indipendenza diventava realtà per le comunità del Sud Sudan, dopo una guerra durata più di 20 anni e terminata nel 2005 con l’Accordo di Naivasha. Con la firma dell’accordo di pace, il sud otteneva il diritto a indire un referendum sull’indipendenza, che sei anni dopo avrebbe portato alla nascita di quello che ancora oggi viene definito “il più giovane Paese al mondo”. Il sogno di un Sud Sudan capace di reggersi sulle proprie gambe grazie all’attività di estrazione ed esportazione di gas e petrolio dal sottosuolo, uno dei motivi centrali della guerra d’indipendenza, sembra per ora rimanere tale, perché da quattro anni il Paese è diviso da un conflitto civile tra il presidente, Salva Kiir, e le milizie fedeli all’ex vicepresidente, Riek Machar.

La guerra, scoppiata il 15 dicembre del 2013, è principalmente uno scontro di potere tra i leader politici nel nome di interessi economici collegati all’attività di estrazione del petrolio, la principale risorsa naturale del Paese. Tuttavia, come sempre succede le prime vittime sono i civili: con 50.000 morti e poco meno di 4 milioni di sfollati, di cui la metà ancora nel Paese, quella sudsudanese è una delle più grandi crisi umanitarie in corso, aggravata ulteriormente dalla siccità che nel 2016 ha aggravato la crisi umanitaria colpendo almeno 100.000 persone. In questi giorni l’Ocha, l’ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari, ha lanciato un appello per per ottenere un miliardo e mezzo di euro, cifra necessaria per fornire assistenza di base alla popolazione.

Padre Renato Colizzi, presidente del Magis, il Movimento e Azione dei gesuiti italiani per lo sviluppo, la rete delle missioni sostenuti dalla Compagnia di Gesù, ha avuto la possibilità negli ultimi mesi di recarsi in Sud Sudan e racconta che «l’emergenza principale è ovviamente la pace, cercare di diminuire i conflitti che rendono il Paese instabile».

In concreto, di che tipo di emergenza discende da questa guerra?

«Prima di tutto le persone non possono spostarsi, non possono usare le strade perché sono pericolose, quindi anche il soccorso medico e alimentare, due grandi bisogni del Paese, si trovano in grande difficoltà: oggi i viveri vengono portati con aerei nelle zone in cui vicino c’è una pista di atterraggio, oppure con elicotteri, il che significa che ci sono villaggi, zone, che sono completamente abbandonate. Tra l’altro questo è un periodo di grande carestia, legata anche a un’economia che ormai è in ginocchio a causa della guerra.

Le persone sono quindi nel pieno di un circolo vizioso: c’è la violenza, quindi le persone devono fuggire e abbandonare i campi e i raccolti e andare in campi di sfollati. Questo fa sì che non ci sia nessun commercio, perché non ci sono le merci e perché il commercio si muove sulle strade, che però sono insicure e quindi impraticabili. Le persone quindi sono isolate, affamate e soprattutto a rischio. Quest’anno ho visitato principalmente due città, che sono Wau, la seconda città più grande dopo Juba, e Rumbek, che è sostanzialmente un villaggio. In entrambi la popolazione è molto attenta a dove mette i piedi, perché a seconda di quale etnia è predominante facilmente si può diventare vittima di attacchi con armi da fuoco».

Nel “libro dei sogni” dell’indipendentismo del Sud Sudan c’era il benessere portato da un’economia basata sull’estrazione del petrolio. Il fallimento è evidente, ma era prevedibile?

«Purtroppo sì, perché sembra quasi che il petrolio sia una maledizione per questi Paesi. Se un governo non è solido di per sé e quindi non ha una politica chiara e lungimirante di alleanze, il petrolio diventa in realtà una causa incredibile di destabilizzazione politica. Si getta letteralmente benzina sul fuoco dei conflitti, perché in realtà molte guerre nascono perché le etnie possano entrare in possesso di ricchezze legate all’estrazione di risorse naturali, questo magari con l’aiuto di Paesi esteri che vogliono beneficiare dell’estrazione. Insomma, puntare su una sola risorsa sperando che quella possa portare un’economia prospera a un Paese è veramente un’utopia, questo non solo in Sud Sudan ma in tanti altri Paesi».

Da dove partire per costruire un percorso di pace?

«La cosa più importante è che i capi delle etnie, i leader di comunità, si parlino. Questo si può fare anche da parte nostra organizzando occasioni in cui le persone possano sedersi e parlare di fronte alle loro comunità e ai loro giovani. È davanti agli occhi di tutti che sono specialmente i giovani le prime vittime di tutto questo, quindi i leader musulmani, cristiani o tradizionali si devono sedere intorno a un tavolo e cominciare a parlare di cosa fare nel proprio territorio. Prima di tutto, al di là delle grandi alleanze politiche, di Salva Kiir o degli altri leader, non si deve fare uso di armi da fuoco, poi si deve iniziare dal tessuto sociale con dei tavoli di discussione in cui si cerca anche di mettere in modo dei meccanismi di riconciliazione. Tante zone e tante famiglie sono talmente colpite dalla guerra, e ci sono vittime dall’una e dall’altra parte, per cui servono dei luoghi in cui le persone possano raccontarsi che cos’è successo, che cosa hanno vissuto, ma non in termini di vendetta, bensì in termini di ferite del passato che raccontando, che confrontandosi, possono essere superate. Una volta che il tessuto sociale è riuscito a vivere queste dinamiche di riconciliazione, l’economia è destinata a seguire piano piano, perché i campi diventano sicuri, le Ong possono ricominciare a dare il loro aiuto, la loro assistenza sanitaria e di alimentazione e sostentamento. Tutto deve cominciare da un processo di pacificazione dal basso di queste comunità».

Quanto siamo vicini a questo percorso?

«Le persone sono molto consapevoli del fatto che così non può andare avanti, sono esasperate, sono affamate, però la pace non è dietro l’angolo. Serve un lungo percorso di presa di consapevolezza soprattutto da parte dei grandi leader del Paese».