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Geremia, poeta tragico e profeta visionario

Nella bibbia ebraica, come nel continente asiatico dove è nata, si incontrano pianure sconfinate, giardini orientali, montagne inaccessibili flagellate dal vento, una di queste, il libro di Geremia, è materia di questo commentario*. Meritevole di attenzione per ampiezza e acribia, invita a fare una lettura meditata di questo vero e proprio «K2» dello Spirito.

Trattandosi non di un libro moderno, di cui sono noti autore, editore e data, ma di un testo antico, il nostro commentario ne chiarisce anzitutto la struttura. A costituirne il nucleo di base è la produzione poetica di Geremia, personaggio di rilievo della Gerusalemme di Sedekia, che vive in carcere gli anni tragici della fine dell’indipendenza di Giuda, conducendo una appassionata riflessione su quanto sta accadendo. Su questo nucleo originario si inseriscono successivamente un ampio testo del discepolo Baruch, cap. 36-45, che narra alcune vicende del profeta, e altro materiale: profezie di salvezza, condanna di popoli pagani.

Tutto questo gravita attorno alla fine del regno ad opera dell’Impero babilonese, problema, nell’ottica del libro, essenzialmente teologico: è impossibile che l’Altissimo assista alla distruzione della città santa che ha scelto a sua dimora – ripetono come un mantra, i dirigenti politici e religiosi. È inevitabile, non si stancava di ripetere il profeta, perché con le sue pratiche idolatriche e un atteggiamento di sufficienza arrogante, Giuda è venuto meno al patto stabilito da Dio. Geremia si ricollega in questo alla predicazione di Osea, il profeta che aveva creato, per definire l’incredulità di Israele, l’immagine del tradimento coniugale: da compagna amata e benedetta, quale il suo Dio l’aveva voluto, Israele era diventato una sgualdrina.

Quando però il giudizio è avvenuto può dirsi definitivamente finito il rapporto di Dio con il suo popolo? Su questo rifletteranno Geremia e i suoi discepoli e, nel quadro della ricerca teologica che darà luogo a un altro dei grandi testi biblici, il Deuteronomio, risponderanno ipotizzando un nuovo patto scritto non più sulla pietra ma nei cuori.

L’interesse del commento di Brueggemann, oltre a definire con chiarezza questi temi, sta nel porre in luce i caratteri peculiari del testo di Geremia. Il primo è la coscienza politica del profeta; anziché condurre una politica di nazionalismo infantile, Giuda dovrebbe umiliarsi e sottomettersi alla potenza babilonese e potrebbe sopravvivere; tesi paradossale, che fa coincidere la volontà divina con una posizione di calcolato opportunismo politico. Per la prima volta un profeta legge la situazione storica contingente in prospettiva teologica e legge in una scelta politica il volere di Dio.

Secondo elemento peculiare: la ricchezza e varietà di linguaggio poetico del testo; la fine di una società è un dato di fatto, un enunciato oggettivo che può fare un politico avveduto (non lo era Sedekia), ma profetizzarla è altra cosa, un’arte che il libro di Geremia raggiunge con una varietà di immagini e modulazione di linguaggi insuperata.

Karl Jaspers collocava Geremia, insieme a Socrate, Confucio, Buddha, in quella che definiva «l’età assiale», il periodo della storia umana che ha registrato l’eccezionale creatività nell’ambito della cultura religiosa: il profeta accanto al filosofo, al saggio, all’illuminato. Molto più che espressione fondamentale della fede israelita, a lui si deve la rivelazione del monoteismo biblico che si distanzia da quello naturalistico di Amenophi IV e da quello metafisico dell’Illuminismo. Un monoteismo fondato sul concetto di elezione, cioè non di sovranità dispotica e tirannica dell’Assoluto, ma sul rapporto di amore e dedizione di un Dio presente alla storia della creatura, cioè al Dio trinitario che troverà la sua espressione compiuta nella vicenda di Gesù di Nazaret.

* Walter Brueggemann, Geremia. Esilio e ritorno, Strumenti n° 68, Commentari. Torino, Claudiana, 2015, pp. 500, euro 48,00.