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Lingua italiana: aggiungere , non sottrarre

Sarà che al culto siamo abituati a seguire una spiegazione della parola di Dio basata innanzitutto sull’analisi del testo, con attenzione alle sfumature che può avere un verbo o un aggettivo. E sarà che siamo anche abituati a confrontare con profitto diverse traduzioni della Bibbia: pratiche consolidate, che ci rendono esigenti… fatto sta che l’ipotesi di un disegno di legge (da parte del deputato Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera) volto a tutelare la lingua italiana anche reprimendo l’utilizzo di parole e termini stranieri (cioè inglesi) nel nostro rapporto con la pubblica amministrazione e in parte in atti con Enti privati, e a promuovere l’esclusività della lingua italiana nelle sedi formative come l’Università, ci interroga e dà lo spunto per alcune riflessioni..

Anch’io, personalmente, sopporto a fatica l’utilizzo eccessivo di termini inglesi, sui giornali o nella radio e tv: in primo luogo perché si tratta di un inglese ben lontano dalla lingua di Shakespeare e anche da quella, per dire, dei poeti premi Nobel Derek Walcott (1992, caraibico che scriveva sia in inglese sia in creolo) o Seamus Heaney (1995, irlandese). Si tratta invece di parole quasi sempre “tecniche”, mutuate da linguaggi settoriali, che vanno a tracimare in contesti ben lontani, anche quando esisterebbero termini italiani equipollenti. Peraltro, fra le voci avverse alla proposta di legge, ho sentito (Radiouno) dire che ormai tutti sanno che cosa significhi smart working – e questo nella stessa settimana in cui l’Istat ci diceva che un italiano su quattro ha più di 65 anni: vogliamo verificare quanti conoscono questi termini?

Una delle motivazioni alla base della proposta di legge riguarda il rapporto che abbiamo con la burocrazia e magari con la giustizia, o con altri soggetti. Ma siamo sicuri che a rendere difficoltose la lettura e la comprensione di contratti, pratiche burocratiche, polizze siano proprio i termini inglesi e non, piuttosto, improbabili neologismi – le “obliteratrici” comparse su tram e bus nei primi anni ‘70 –, o termini noti ai soli addetti ai lavori, per giunta stritolati in frasi aggrovigliate, fra ripetizioni e ridondanze da Azzeccagarbugli?

L’utilizzo che facciamo della lingua da parte è questione di grande complessità, per le molte implicazioni di cui siamo messi al corrente giornalmente: dall’aggressività, spesso tendenziosa, di certe titolazioni sui giornali al carattere offensivo di molti testi che circolano sulla rete; per non parlare dei problemi, teorici e pratici, di un linguaggio che cerca di accogliere tutti e tutte. Molte e diverse possono essere le idee rispetto ai problemi suscitati intorno alle questioni “di genere” con cui deve fare i conti tutti i giorni il nostro linguaggio: certo sono problemi non eludibili.

Ciò detto, mi sembra che la giusta preoccupazione per la salvaguardia della lingua italiana parta da una errata diagnosi: per tutelare la lingua non si tratta tanto di vietare, cioè di “sottrarre”, quanto di ridar fiato a un italiano che si sta impoverendo. La nostra lingua scritta si sta svilendo per opera nostra, da almeno due decenni: i giornali sono scritti sempre peggio, i testi prodotti nelle scuole e Università sono sempre più aridi; purtroppo anche romanzi e racconti di fama presentano un lessico ridotto a poche centinaia parole, punteggiatura cervellotica, scarsa composizione di periodi complessi. Prevalgono frasi lapidarie costruite con un soggetto che compie un’azione (verbo) su un oggetto, magari gratificato da qualche aggettivo. Punto, e a capo per un’altra frase analoga, spesso con una imitazione pedissequa del linguaggio parlato (che ha tutta la sua dignità, ma è altra cosa) e un ricorso banale e noioso al turpiloquio.

Alcuni decenni fa i detrattori di Alberto Moravia gli rimproveravano una lingua piatta, che definivano “italiano delle traduzioni”. Una lingua ritenuta fredda, forse perché non al servizio di una “ispirazione originaria” (che è di spettanza dell’autore straniero. Oggi non direbbero più così: proprio da traduttrici e traduttori vengono dei capolavori di scrittura in italiano, certo debitori dei testi di partenza, ma molto ben lavorati. Abbiamo bisogno di una lingua che sappia suscitare emozioni, ma senza per questo dover “sbracare”, e per questo esistono solo due possibilità. O si hanno dei doni di natura, e i testi sgorgano sulla pagina fluenti e leggeri come la parlantina dei fabulatori d’un tempo; oppure bisogna lavorarci, a partire naturalmente dalla scuola, perché non sono gli agenti esterni a mortificare la lingua (anzi, gli storici della lingua sostengono da sempre che una lingua che accetti prestiti da altre è ben viva), ma la nostra incuria, la stessa che abbiamo nei confronti dell’assetto idrogeologico, spesso anche del patrimonio artistico, delle infrastrutture.

Per tornare alla Bibbia: nelle scuolette Beckwith, essa era non solo il libro che contiene la parola di Dio, ma anche il grimaldello che permetteva di acquisire familiarità con una lingua (inizialmente il francese); e questo permetteva di capire che non tutte le parole sono uguali, che qualcuna si adatta meglio di altre a descrivere un evento, una persona, un paesaggio. Precisione, chiarezza e capacità di evocazione (razionale, ma anche emotiva) sono i requisiti che le nostre parole dovrebbero avere. Primo Levi è stato ineguagliabile nel proporre dei testi coinvolgenti, scritti in maniera cristallina e leggibili da chiunque, al tempo stesso precisi ed emozionanti (anche quelli non legati all’internamento): forse la sua formazione di chimico, abbinata a uno spirito poetico-contemplativo, gli ha dato questa possibilità, che egli avvertiva anche come un dovere civico. Un dovere che è di ognuna e ognuno di noi; un dovere, oltretutto, che può anche essere piacevole: innanzitutto leggendo a più non posso… e poi, nell’attesa di un dibattito pubblico approfondito, più che i divieti, riscopriamo il Dizionario dei sinonimi.