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Stampa, i “rischi-bavaglio”

Nuovi bavagli, nuove aggressioni, ostacoli crescenti alla libertà di informazione stridono in maniera netta, evidente, eppure snobbata con l’aumentata fruibilità delle notizie. Un paradosso che gli osservatori più avveduti avevano preconizzato ma che adesso pone una serie di interrogativi: il primo riguarda il diritto a essere informati, il secondo l’agibilità della professione che in alcune aree geografiche d’Italia è, letteralmente, negata. 

Il Centro di coordinamento del ministero dell’Interno nell’ultimo report di maggio scorso ha confermato un aumento costante negli ultimi anni degli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti, con una lieve ma incoraggiante diminuzione nei primi tre mesi del 2022. Elemento legato soprattutto alle minori aggressioni fisiche, esplose nel 2021 in concomitanza con le proteste no vax, durante le quali giornalisti, fotografi e cineoperatori erano dei veri e propri bersagli mobili. Per restare, comunque, ai dati tra gennaio e marzo di quest’anno ci sono state 44 denunce di intimidazioni verso i giornalisti. Nello stesso periodo del 2021 erano state 63.

Ciò che preoccupa forse ancora più delle cifre è la crescente insofferenza verso l’informazione, soprattutto se afferente temi scomodi, come l’inquinamento ambientale, la criminalità organizzata, la corruzione, i reati finanziari, vale a ire le croste peggiori del Paese, sulle quali si vorrebbe stendere un velo pietoso, meglio se legittimato da leggi. E purtroppo è ciò che sta avvenendo a seguito della entrata in vigore del cosiddetto decreto sulla presunzione d’innocenza che si sta rivelando un colpo letale per la cronaca giudiziaria delle storie più scomode del Paese. Presentato come il recepimento di una direttiva europea (a fronte di tante altre allegramente disattese, leggi “direttiva Bolkestein” per esempio), il decreto nella sua attuazione pratica si sta rivelando l’ultimo bavaglio sul giornalismo e in specie su quello più scomodo, ossia il racconto dei procedimenti penali, ora possibile solo se “autorizzato” dal Procuratore della Repubblica procedente e solo per le notizie che lo stesso ritiene di interesse. È stato già chiamato in causa da autorevoli tecnici e osservatori il vecchio “Minculpop”, e il paragone con le veline delle Prefetture degli Anni Venti, tuttavia c’è molto di aggiuntivo e diverso in ciò che sta accadendo nella cronaca giudiziaria italiana degli ultimi sei mesi. Per esempio: ogni Procura si regola diversamente nella quantità di informazioni che vengono fornite per un procedimento “di interesse”. C’è chi fornisce le iniziali degli indagati, chi l’ammontare del sequestro, chi la città in cui è avvenuto il contestato reato, chi nemmeno quella, chi rende nota l’esecuzione di arresti quando già il gip ha concesso la scarcerazione.

La tempistica della divulgazione della notizia da parte delle Procure avviene con i tempi delle Procure che non sono (e non potrebbero essere) quelli dei giornali o dei siti di informazione, dunque quasi ogni giorno ci si trova a dover lavorare su notizie di giudiziaria vecchie di giorni, o anche di settimane, in un sistema dell’informazione che, per tutto il resto, avviene in tempo reale. In pratica il lettore-consumatore di informazione ha la possibilità di seguire i bombardamenti di una guerra in diretta, i naufragi dei migranti in diretta ma quasi sicuramente apprenderà dell’arresto dell’assessore della sua Regione per corruzione o turbativa degli incanti una settimana dopo, quando forse saranno anche state decise misure restrittive alternative e quindi la stessa notizia avrà mutato pelle.

Perché si è arrivati a questo punto? Le interpretazioni possono essere molteplici, una potrebbe calzare più di altre: la legge sulla presunzione di innocenza probabilmente non aveva il solo scopo di tutelare gli indagati. In un simile scenario si aggiungono liste di proscrizione compilate sulla base di elementi poco chiari e una progressiva precarizzazione della professione giornalistica. Il presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, Giuseppe Giulietti, più volte ha detto che il Parlamento «si guarda bene dall’affrontare due nodi come l’equo compenso e la proposta legislativa contro le querele bavaglio». Il combinato disposto della povertà economica e precarietà contrattuale di tantissimi giornalisti e il peso delle denunce pretestuose sta causando una povertà informativa grave, di cui forse non è stata ancora colta la portata. 

Articolo 21 nella festa per i suoi venti anni ha nuovamente acceso i riflettori sull’impatto che nuovi e vecchi bavagli stanno portando nella fruibilità dell’informazione e dunque nel diritto di tutti i cittadini ad essere informati. Ogni giorno dai palinsesti, dalle foliazioni dei grandi e piccoli giornali scompaiono notizie di interesse rilevantissimo, come casi di corruzione, evasione fiscale, condizionamento mafioso della vita politica italiana. Di più: ogni giorno qualche voce tace ed esiste una certificata desertificazione dell’informazione nel sud del Paese, sostituita da blog e siti pilotati da potentati economici, spesso vicini a potentati criminali. Fare luce su questo tipo di situazioni diventa sempre più difficile e pericoloso sotto il profilo sia legale sia fisico, poiché bisogna sempre ricordare che in Italia ci sono 24 giornalisti sotto scorta e decine di altri sottoposti a regime di sorveglianza cosiddetto attenuato. Già questa condizione non è normale in un Paese normale e dice tutto sulla deriva democratica che si può portare dietro il bavaglio, i bavagli alla libertà dei giornalisti di raccontare anche ciò che non vorremmo mai leggere.