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Io non mi sento innocente

Si chiamava Raphael Godwin, aveva18 anni. Era arrivato con i barconi poco tempo fa, la sua richiesta di asilo politico era stata respinta ma era rimasto in Italia. Dove altro poteva andare? Aveva raggiunto Firenze. Forse qui c’era qualche conoscente del suo paese, la Nigeria, o aveva fatto amicizia con qualcuno mentre era già in Italia. E così domenica scorsa, il 14 settembre, un amico gli ha proposto di andare a festeggiare un compleanno. Perché no. Era solo un ragazzo, sarebbe stata un’occasione per conoscere persone, sentire un po’ di musica… Si sono trovati verso le 19. La festeggiata compiva 25 anni e aveva invitato qualche amico, più o meno una decina. Il volume della musica era forse un po’ alto. Qualche mugugno, qualche protesta dei vicini ma nessuno è andato a lamentarsi direttamente. Verso le 21.30 era tutto finito. Era cessata la musica e gli amici se ne stavano andando a casa.

La padrona di casa, Jeanne, una donna togolese ben conosciuta dalla locale chiesa battista nella quale era stata battezzata una quindicina di anni fa, stava mettendo a letto i suoi bambini, l’indomani c’era scuola, mentre la ragazza che aveva festeggiato il compleanno stava salutando gli amici che stavano andando via. Suona il citofono. “Polizia”. Salgono. Qualcuno si era lamentato per la musica o qualche risata di troppo… “Documenti!”, “Ecco!”. La padrona di casa aveva il permesso di soggiorno in ordine, e aveva a suo tempo segnalato alla questura l’ospitalità della ragazza nigeriana che quel giorno compiva gli anni. “Tutto a posto allora?” “Sì, tutto a posto. Festa finita…”.

Mentre parlavano sul pianerottolo di casa si vede la sagoma di un giovane che sale al piano di sopra. “Che fai? Vieni giù”, gli urla il poliziotto. È Raphael. Non ha il permesso di soggiorno, è preso dal panico, si sente in trappola. Così scavalca una finestra lì nelle scale. Vuole scappare. C’è una grondaia e un bordo spiovente, si aggrappa, scivola… Raphael vola giù dal quarto piano, sbatte la testa e muore sul colpo. In pochi minuti si consuma la tragedia sotto gli occhi dei poliziotti. Jeanne non vede il ragazzo cadere ma sente il tonfo. Qualche secondo dopo vede, capisce…

Oggi sono andata a trovarla. Mi racconta, non se ne fa una ragione. Non era tardi, nessuno era venuto a lamentarsi, non stavano facendo niente di male… La ragazza che vive con lei non fa che piangere. Voleva solo festeggiare i suoi 25 anni…

E noi? Com’è diventato questo nostro paese? Cosa siamo diventati noi da terrorizzare un ragazzo che non ha fatto nulla di male, che è scappato dal suo paese per sfuggire a fame, povertà, violenza, che ha affrontato deserti e poi la tremenda traversata in una carretta del mare, e che poi trova la morte in questo modo? Come siamo diventati noi da fare così paura a persone innocenti come Raphael? E perché siamo così intolleranti da non sopportare che un gruppo di giovani africani faccia festa come tutti gli altri giovani? E perché a questo ragazzo è stata rifiutata l’accoglienza qui da noi?

Qualcuno dirà che la sua morte è stata fatalità, che non è stata colpa di nessuno. Probabilmente la pratica sarà archiviata presto dalla Procura della Repubblica. Non è stato che un incidente. Certamente andrà così. Eppure se anche nessuno è perseguibile per legge, siamo proprio innocenti? Io non mi sento innocente. Mi sento corresponsabile di un sistema per il quale alcuni hanno diritto di esistere, altri no, alcuni hanno il loro posto nel mondo, altri son clandestini dalla nascita e, dovunque vanno, sono indesiderabili. Un mondo in cui una festa di compleanno può trasformarsi in un incubo e la gratitudine per la vita in un freddo certificato di morte. Uno in più in questa incerta contabilità di chi fugge via e, fuggendo, vive o muore così, a caso, mentre tutto continua uguale e i più si rassegnano al destino avverso. Degli altri.

Foto copertina: “02014 Banksy in Sanok” di SilarOpera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.