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La felicità è il mio prossimo

Victor Chan è in Italia per presentare il suo nuovo libro, il secondo scritto a quattro mani con il Dalai Lama, La felicità è negli altri edito da Sperling & Kupfer. Che ha conosciuto ormai più di quarant’anni fa, nel 1972. La sua vita è un’avventura fatta di rapimenti, fughe rocambolesche, viaggi in solitaria fra Europa e Asia. E’ l’autore della splendida guida “Tibet handbook, a pilgrimage guide”, uscita nel 1994 negli Stati Uniti dopo anni di visite e pellegrinaggi fra le montagne sacre, muovendosi con ogni mezzo: a piedi, a cavallo, sugli yak, in bus, camion e canoa. Lo abbiamo incontrato a Torino durante Torino Spiritualità, in una chiacchierata che ha ripercorso le tappe della sua vita e il suo rapporto con il leader religioso buddista.

Nativo di Hong Kong, lascia l’Asia per il Canada all’età di vent’anni. Cinese quindi, anche se cittadino del mondo; come vive la situazione tibetana?

“Male. La Cina sta colonizzando il Tibet e altre regioni senza alcun rispetto per ciò che incontrano. Tradizioni e costumi dei paesi ‘annessi’ vengono calpestati senza riguardo. La speranza viene dalla nuova generazione di classe dirigente del partito comunista cinese: queste persone hanno vissuto all’estero, hanno studiato e apprezzato differenti realtà sociali ed economiche, e sicuramente hanno differenti modalità di intendere la coesistenza fra popoli. Gli attuali leader sono vecchi, come età e come modo di pensare, terribilmente poco abituati ad avere a che fare con le minoranze. I loro discorsi sono dischi rotti, fuori dal tempo, e la stampa non può e non deve occuparsi dei conflitti interni, per cui la popolazione sa poco o nulla di cosa sta accadendo in Tibet come in altre regioni”.

Ci descrive le sue emozioni alla prima visione del Kailash, il monte sacro di induisti e buddisti, da cui nascono l’Indo e il Brahmaputra, due fra i più lunghi fiumi asiatici?

“Fu al termine di un lungo viaggio di avvicinamento fatto prima nel retro dei camion e poi a piedi. Le attrezzature erano molto diverse da quelle di oggi, era inverno e il mio abbigliamento non era consono, per cui soffrii molto per il freddo, ma fu un’esperienza splendida, condivisa con i pochissimi pellegrini che si incrociavano all’epoca. Impiegai tre giorni per il Kora (giro) del Kang Rinpoche (Kailash in tibetano, ndr), percorso che si compie per favorire la purificazione dell’anima”.

L’incontro con il Dalai Lama e i libri scritti insieme: si è mai chiesto il perché del vostro rapporto?

“Si certo. Fin dal primo incontro nel 1972 si era dimostrato molto curioso della mia storia di cinese che viveva all’estero. Sicuramente lo scontro in atto fra Cina e Tibet conta molto: Tenzin Gyatso sa che quando io parlo con miei amici o parenti cinesi offro loro una versione dei fatti diversa da quella del governo di Pechino, mostrando loro i principi di non violenza e di rispetto reciproco propri del buddismo. E queste sono brecce nel muro dell’intolleranza”.

Nei suoi scritti con il Dalai Lama le colonne portanti per il raggiungimento della felicità sono la meditazione, la compassione, la responsabilità sociale, il perdono. Come si possono spiegare alle nuove generazioni?

“Quello delle nuove generazioni è una sfida centrale, perché emergono nuove patologie psicosociali figlie di questa estrema atomizzazione e difficoltà di relazione. Le tecnologie diventano vere e proprie droghe che allontanano l’individuo dal bene proprio e di chi lo circonda. Questi temi diventano importanti per i ragazzi solitamente a seguito di un evento traumatico: a questo punto le grandi questioni “come posso vivere meglio? Come posso essere felice?” assumono la rilevanza che meritano. La meditazione, che pare un esercizio lontano, ha in realtà strettissime connessioni con il nostro quotidiano. ll professor David DeSteno, della Northeastern University di Boston, ha provato a verificare se la promessa originaria della meditazione, cioè la fine della sofferenza, fosse empiricamente dimostrabile. Dunque col suo gruppo di lavoro, assistito da un neuropsicologo e un lama tibetano, ha fatto un esperimento reclutando 39 persone disposte a sottoporsi, per la prima volta in vita loro, ad un corso intensivo di meditazione di 8 settimane. A 20 di loro è stata data effettivamente questa possibilità, mentre le altre 19 sono state messe in attesa, senza partecipare ad alcun corso. Dopo 8 settimane i partecipanti sono stati invitati in un laboratorio dicendo loro che sarebbero state esaminate le loro capacità cognitive. Ma ciò che interessava veramente era capire se quelli che avevano meditato avrebbero dimostrato una maggiore compassione di fronte alla sofferenza. E sono stati messi alla prova: quando un partecipante entrava nella sala d’attesa, trovava tre sedie, due delle quali erano già occupate, così si sedeva in quella libera. Mentre aspettava, entrava una quarta persona con le stampelle e un piede ingessato, la quale si metteva appoggiata alla parete, lamentandosi per il dolore e la scomodità. Gli altri due, anch’essi complici, la ignoravano, ponendo così il partecipante di fronte al dilemma morale sulla scelta se cedere il posto o meno. I risultati sono stati impressionanti. Sebbene solo il 16 per cento dei non meditanti avesse ceduto la propria sedia, tale percentuale è salita al 50 per cento tra i meditanti. La differenza era impressionante non solo perché era frutto di appena 8 settimane di meditazione, ma anche perché ciò avveniva in un contesto sfavorevole, noto agli psicologi come effetto del passante: il fatto di vedere altri che ignorano una persona che soffre riduce le probabilità di intervento a favore di quella persona. Questo dimostra plasticamente come la meditazione renda l’individuo più pronto a cogliere il mondo attorno a lui, e lo renda capace di godere della felicità degli altri”.

Nel 2004 ha fondato il ‘Dalai Lama center for peace and education’ a Vancouver, sua città d’adozione: con quali finalità?

“Io ho ricevuto la mia prima educazione scolastica ad Hong Kong secondo un modello terribilmente competitivo che pone i voti come unico metro di misura del successo di un individuo. Tutte modalità che con il mio avvicinamento al buddismo non potevo considerare valide. Il centro prende avvio a seguito di una serie di conferenze nel 2004 fra il Dalai Lama e varie personalità politiche e religiose come Desmond Tutu, Shirin Ebadi e molti altri, spinti a ragionare anche sull’argomento di una corretta educazione, nella convinzione che non è sufficiente la conoscenza ottenuta con la mente, ma è anche il cuore che va educato a capire e sentire il mondo. Il centro quindi è in relazione con le scuole, non solo di Vancouver, e promuove un’azione di lobby perché venga ripensata la proposta scolastica, riservando più spazio a questi valori non materiali”.