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Il “fronte della coscienza” continua a marciare

Dopo l’uccisione dei giovani afroamericani disarmati da parte della polizia statunitense, le manifestazioni partite da Ferguson hanno continuato a crescere in diverse città degli Usa, fino ad arrivare a New York, il 12 e 13 dicembre. La manifestazione è stata subito rinominata Million March, e i media hanno collegato il flusso di persone a quelli degli anni 60, in cui si manifestava contro la discriminazione razziale nei confronti dei neri. Dopo 50 anni si manifesta ancora per la stessa cosa, ben sapendo che l’epoca della segregazione è finita, ma sapendo altrettanto bene che il razzismo e la discriminazione continuano ad essere forte negli Usa, e spesso si manifestano con l’abuso di potere da parte dell’autorità.

In un momento di crisi, anche per la società statunitense, e in un momento in cui si stanno ridefinendo alcuni aspetti del potere – si pensi alla sconfitta di Obama nelle elezioni di Mid-Term – episodi come quelli di Ferguson determinano una nuova crisi, questa volta sociale, che però ha la caratteristica di far interrogare la società su se se stessa e «su quali siano i suoi equilibri e lo spazio che essa è in grado di garantire alle minoranze etniche a partire da quella afroamericana», dice Paolo Naso, politologo e docente all’Università la Sapienza di Roma, al quale abbiamo chiesto un’opinione riguardo a questo movimento.

La violenza della polizia non è una novità: perché assistiamo a manifestazioni come questa proprio ora?

«Perché è la prova più evidente del fatto che la ferita del razzismo americano non si è mai del tutto rimarginata. Persistono ancora i problemi legati a quello che nel linguaggio americano si definisce race-divide, la divisione della razza. Motivi per affermare che permane un race-divide ce ne sono molti: come il problema della visibilità della cultura afroamericana nel complesso nordamericano, il problema dell’accesso agli studi e al lavoro, di retribuzione, tutte cose che hanno una rilevanza particolare soprattutto per le minoranze ispaniche e afroamericane. Il razzismo è il peccato originale della società americana, che non si è mai completamente emendata. È un percorso mai compiuto: le parole di Martin Luther King furono profetiche a proposito della terra promessa che lui non avrebbe raggiunto, ma i suoi compagni sì, ovvero che non è una meta alla quale si arriva una volta per tutte, ma che va riconquistata, ricostruita, riseminata, coltivata ogni giorno. Da questo punto di vista ci sono stati dei momenti della storia politica americana in cui c’è stata grande attenzione al tema delle minoranze: pensiamo alla questione delle quote, ai posti garantiti per gli studenti o i lavoratori di particolari gruppi etnici. Questa formula oggi si ritiene superata, ma non è superato il problema. Il fatto che uno studente o una donna di una minoranza ha meno accesso al cuore della società americana di una persona che invece appartiene al gruppo caucasico».

Si è parlato di un collegamento con le manifestazioni degli anni ’60. C’è una continuità?

«La continuità è garantita da mille elementi, alcuni simbolici: le chiese sono al centro di questa mobilitazione come lo furono negli anni dei movimenti per i diritti civili, pensiamo al ruolo che sta avendo il National Council of Churches, l’organismo di rappresentanza delle principali chiese storiche degli Stati Uniti. C’è anche un elemento di continuità individuale: abbiamo ancora in questo movimento alcune personalità che furono protagoniste dei movimenti per i diritti negli anni Sessanta. Inoltre la comunità afroamericana riesce a mantenere una sua compattezza, una suo protagonismo sociale pubblico molto rilevante. Benché la comunità ispana sia estremamente consistente, ancora oggi non ha conquistato quel ruolo pubblico e quella capacità di mobilitazione che ha invece la comunità afroamericana. La discontinuità, invece, è soprattutto negli anni della presidenza Obama: si vuole colpire un reato, un attitudine, non un sistema. Quello segregazionista, infatti, è un problema che è stato destrutturato, ma la necessità ora è colpire i residui culturali, gli strascichi e gli atteggiamenti personali di qualcuno che non ha ancora capito che il mondo è cambiato. Ma altre interpretazioni ci dicono che la società americana è ancora strutturalmente e fisiologicamente razzista e il problema non è punire il poliziotto, ma sconfiggere una cultura che crea il sistema per cui il poliziotto si sente autorizzato a colpire in quel modo. Se questa ipotesi ha una sua solidità non si tratta di invocare solo processi più giusti, ma davvero di lavorare su questa salita permanente che resta nella società e che qualcuno ha definito il peccato originale dell’America».

Negli Usa le mobilitazioni riescono a influenzare, sebbene sul lungo periodo, le leggi: cosa ne pensa?

«Penso che sia vero, è la storia delle grandi mobilitazioni che hanno attraversato tutta la storia americana, che però hanno una particolarità: data l’incidenza molto consistente dell’identità religiosa, in un paese che conosce tassi di secolarizzazione estremamente inferiori rispetto a quelli dell’Europa, la religione conta moltissimo, le grandi mobilitazioni acquistano dimensione politica, ma la loro anima più intima resta una anima religiosa, in cui si fa appello alla coscienza. Di nuovo, per citare King, allora si parlava di un “fronte della coscienza”: la specificità dei movimenti di protesta, quelli americani sono soggetti che hanno come centro un appello alla coscienza e da questo punto di vista sanno marciare con il passo lungo, e hanno la capacità di tenere negli anni. Le leggi si possono produrre nel lungo periodo, ma marce come quelle di questi giorni ci dicono che il movimento ha la visione e la capacità di durata, perché questa azione sia permanente e non si limiti a colpire gli effetti esteriori del razzismo, ma vada a colpire il cuore duro di un ragionamento, di una struttura e di una mentalità che resiste ancora nonostante le leggi e i grandi cambiamenti nella società americana, a iniziare da quello più simbolico di tutti, l’elezione del primo presidente afroamericano».

Foto via Twitter