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Una speranza per il precariato

Venerdì, il Consiglio dei ministri ha approvato i decreti attuativi del Jobs Act. I quotidiani parlano delle tutele crescenti, del demansionamento e soprattutto della fine dei co.co.pro per mascherare il lavoro dipendente. Ne parliamo con Marco Leonardi, economista, docente di economia del lavoro, e consulente del Ministero dell’Economia.

Qual è l’aspetto importante, secondo lei?

«Il cambiamento portato dal Job Act è di due tipi: il primo, il decreto di Natale, già approvato e oggi in via definitiva, riguarda sostanzialmente i licenziamenti e quindi il nuovo contratto a tempo indeterminato di cui le caratteristiche si sapevano già. Il secondo tassello importante di questo disegno complessivo del mercato del lavoro, potremmo dire che è quello più “di sinistra”, anche se nel dibattito politico non è emerso. Ma lo è chiaramente, perché c’è l’abolizione del co.co.co e del co.co.pro: nel dibattito non è emerso perché Renzi ha disatteso i suggerimenti delle commissioni, e si è discusso su questo, ma la sinistra dovrebbe essere contenta». 

Il precariato continuerà ad esistere?

«C’è un grosso equivoco: il problema vero è che si è erroneamente e per lungo tempo parlato di un contratto unico. Ma se uno si guarda intorno, in Europa e nel mondo, non esiste un paese con un contratto unico. Non esiste solo il contratto a tempo indeterminato, ma lo sforzo è aumentare la quota del tempo indeterminato, e in questo secondo decreto è stata fatta una cosa che non è mai stata fatta prima, di portata assai rilevante: la cancellazione per legge dei co.co.pro, che significa fare una distinzione più netta tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. In teoria di legge, che comunque aiuta, non ci può più essere un finto lavoratore autonomo, come una partita iva che in realtà dovrebbe essere un lavoratore dipendente. Questo perché avendo reso meno rigide le norme sul lavoro dipendente, rendendo più facile il licenziamento con indennizzo, e avendo forti incentivi sull’assunzione a tempo determinato, non c’è più un alibi per non assumere». 

Da precarietà passiamo a una flessibilità, questa volta, reale?

«Questa è di gran lunga la cosa più radicale che è stata fatta fino ad adesso, ma forse la più radicale che poteva essere fatta. Eliminare sia l’articolo 18, sia i co.co.pro è stata indubbiamente una scelta radicale: se uno è autonomo non può fare un lavoro ripetitivo per un committente, perché altrimenti è lavoro dipendente. Ma ricordiamo che non tutti i co.co.pro sono dei dipendenti fasulli, non tutto il lavoro a chiamata è precarietà. Chi fa l’hostess per i convegni, per esempio, lavora così. In Italia c’è molto più precariato che negli altri paesi, perché essendo il contratto dipendente molto costoso e molto difficile da rescindere, era invalsa l’abitudine a prendere dei dipendenti sotto falsa partita iva o co.co.pro. Le due cose combinate, dovrebbero risolvere la situazione anomala».

Quanto è rischioso che si trovino altre soluzioni a scapito dei lavoratori?

«Il filtro che è stato messo nel decreto non elimina soltanto le collaborazioni a progetto, fa una distinzione fra lavoro autonomo e quello dipendente per tutte le forme contrattuali. L’effetto pratico sarà la cancellazione dei co.co.pro che in realtà sono lavoro subordinato».

Basta cambiare il mercato del lavoro per cambiare l’economia?

«Ovviamente no, lo diciamo sempre, è una condizione necessaria, ma non sufficiente. La riforma del mercato del lavoro non rilancia la ripresa, ma è necessaria per cogliere la ripresa. Qualunque cosa accada in Europa, e speriamo che la ripresa arrivi, nonostante il prezzo del petrolio basso, la svalutazione dell’euro, il mercato del lavoro deve essere pronto. Altrimenti si ripropone un classico: la ripresa arriva e l’occupazione arriva dopo due anni. Ma noi non possiamo aspettare due anni con la disoccupazione al 13 %, di cui il 40% di giovani. Questa riforma del mercato del lavoro serve per questo, per essere pronti».