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La forza delle chiese dopo gli attacchi in Kenia

Dopo la strage all’università di Garissa, in Kenia, compiuta da un gruppo di jhiadisti di Al-Shabaab il 2 aprile, il governo ha proclamato tre giorni di lutto nazionale, al termine dei quali si è svolta una grande manifestazione contro il terrorismo, a Nairobi, dove rappresentanti di diverse religioni hanno sfilato e pregato insieme. Poco prima, l’esercito del keniano aveva bombardato le basi di Al-Shabaab in Somalia. La risposta militare, unita a quella pacifica della società civile, testimonia la forza di un paese che non vuole essere vittima del terrorismo, e che vuole reagire alla violenza che che continua a spaventare il continente africano. Il ruolo delle chiese e delle diverse religioni è stato fondamentale nella manifestazione, ma lo è altrettanto nella quotidianità dei diversi paesi. Il Defap, il servizio missionario di tre chiese protestanti di Francia, ovvero la Chiesa protestante unita, l’Unione delle Chiese protestanti di Alsazia e Lorena e l’Unione nazionale delle Chiese riformate evangeliche, segue da vicino alcuni progetti e operatori inviati in diversi stati africani: Laura Casorio, responsabile degli envoyés, ha commentato con noi le notizie dal Kenia, in relazione al lavoro che le chiese svolgono sul campo.

Come avete saputo dell’attacco in Kenia?

«Nel momento dell’attacco, abbiamo ricevuto la notizia da una famiglia che lavora a Nairobi su un progetto di traduzione della Bibbia. Apprendere queste notizie da persone con le quali si lavora, le rende, se possibile, ancora più violente, perché si danno dei nomi e dei volti alle persone in sofferenza. Questi attacchi sono un orrore indicibile per tutto quello che rappresentano, per la sorpresa con la quale si manifestano e per il numero di vittime. Sono attacchi di terrore, non una guerra con schieramenti opposti. Vediamo che il Kenia ha reagito in modo differenziato: il Governo attaccando in maniera violenta la Somalia (i campi di Al-Shabaab sul confine tra Somalia e Kenia, ndr), e la società civile che nonostante tutto cerca di reagire, con una manifestazione pacifica. Le varie religioni cercano di opporsi alla violenza con la ricerca, se non di un dialogo, almeno di una convivenza possibile. Al Defap sappiamo bene che le chiese di quest’area chiedono con forza di amplificare il loro punto di vista, che dice che non si trovano in una guerra di religione, ma che la religione viene strumentalizzata per delle guerre di altro tipo, che sono inaccettabili, sempre e comunque». 

Se è vero che quella della religione è un’etichetta, è anche vero che le vittime sono state scelte proprio per la loro appartenenza religiosa.

«Si, ed è lì l’atrocità, ma è ancora lì la forza più grande della reazione del mondo delle religioni: parlo delle religioni e non soltanto delle chiese, perché nonostante le vittime siano state individuate sulla base anche di caratteristiche religiose, sappiamo che sul posto le religioni lavorano affinché ci sia un processo di rappacificazione. Ci sono incontri e pressioni, si cerca di arrivare ad avere contatti con la parte militare e politica, proprio per cercare di interrompere il circolo di violenza che ci fa inorridire ogni giorno di più».

Il Defap segue da vicino le chiese in questi paesi esposti alla minaccia del terrorismo?

«Abbiamo due canali privilegiati: uno è quello del Consiglio delle Chiese dell’Africa, un consiglio ecumenico nel quale sono rappresentate le chiese di tutta l’africa, che ha la sua sede a Nairobi, di cui siamo partner. L’altro canale sono le relazioni dirette con le chiese dove abbiamo degli envoyés. In questo momento in Africa centrale, paesi come il Kenia dal confine con la Somalia, il Centrafrica, il nord del Cameroun, il nord della Nigeria, il sud del Niger, sono tutti luoghi che sono sotto altissima sorveglianza da parte nostra, poiché interessati da questi fenomeni che durano da anni. In questo momento stiamo lavorando su due aspetti: la collaborazione con le chiese, con interventi di inviati sulla gestione di progetti, come l’approvvigionamento dell’acqua, progetti sanitari; un altro, più specifico, dettato dall’emergenza dei fatti di questi ultimi mesi: l’accompagnamento delle chiese con pastori specializzati e operatori locali sul posto per formare psicologi e accompagnatori per le vittime di tutti questi attacchi. Accanto alla vittime ci sono sempre delle famiglie, delle persone che si ritrovano spaesate, costrette a fuggire: psicologicamente sono situazioni insostenibili, ci siamo resi conto che interventi dall’esterno sono sicuramente apprezzati, ma perché siano efficaci abbiamo deciso di agire attraverso il trasferimento di competenze, quindi con la formazione di operatori locali. In quest’area le visite di solidarietà di leader di chiese si stanno moltiplicando, nonostante siano zone a rischio. Stiamo mandando delle persone con progetti di breve durata ma che si susseguono nel tempo, missioni di tre settimane ogni due mesi per esempio, proprio per non lasciare queste popolazioni abbandonate. Le vittime hanno bisogno di sentire la solidarietà, che si parla di loro in altre parti del mondo, che si prega per loro e che non sono dimenticate. Le chiese locali chiedono anche questo ai loro partner, come le chiese del Defap o della Cevaa, la comunità delle chiese in missione, che lavorano per portare una solidarietà concreta».

Copertina: PhotoTweet dopo la manifestazione, via Twitter