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Burundi, per ora tutto rimane sospeso

A distanza di due giorni dall’annuncio, in Burundi il colpo di stato portato avanti dal generale Godefroid Niyombareh sembra essere fallito. Il presidente Pierre Nkurunziza, infatti, è rientrato la scorsa notte nel paese, mentre i settori dell’esercito a lui fedeli riprendevano il controllo della situazione nella capitale, Bujumbura. Questo episodio, che comunque non è del tutto chiuso, visto che Niyombareh è ancora ricercato, segna l’apice delle proteste che hanno segnato il paese nelle ultime due settimane. Le proteste e gli scontri, infatti, erano cominciati il 25 aprile, quando il presidente Nkurunziza aveva annunciato la propria volontà di candidarsi per un terzo mandato, tradendo secondo molti lo spirito della Costituzione del 2005.

Dai fatti di questi giorni emerge in modo chiaro che quando parliamo di Burundi nel 2015 non dobbiamo pensare a una nazione divisa da conflitti etnici, ma a un territorio sospeso tra le proprie lotte interne per il potere e gli interessi delle potenze regionali, Ruanda e Tanzania su tutte, senza dimenticare il Congo. 

Se da un lato ci si poteva aspettare una simile implosione politica, dall’altro si sperava invece che il paese riuscisse a mantenere il proprio equilibrio, come successo nell’ultimo decennio. Dopo quasi quarant’anni di guerra civile su base etnica, che come in Ruanda aveva visto opporsi una maggioranza hutu e una minoranza tutsi, il paese aveva raggiunto una fase di normalizzazione, pur rimanendo uno dei paesi più poveri al mondo e per questo fortemente esposto agli interessi internazionali.

La tensione che ha portato al golpe nasce dalla volontà del presidente Nkurunziza di provare a ottenere un terzo mandato alle elezioni del prossimo 26 giugno, approfittando di un’ambiguità nella Costituzione, secondo la quale il capo di stato può essere eletto a suffragio universale per un massimo di due mandati consecutivi. Ad affidare il primo incarico a Nkurunziza, in effetti, non fu un voto popolare, ma il Parlamento, come previsto dagli accordi di Arusha del 2000 che misero fine al conflitto. Secondo l’opposizione, ma anche secondo alcune componenti del partito al potere, Nkurunziza non sta tentando di trasformarsi in un “sovrano elettivo”, come invece abbiamo visto spesso nella regione africana dei Grandi Laghi, ma ha comunque tradito due valori–chiave del paese, ovvero lo spirito della costituzione, lo strumento che ha permesso di far rinascere il Burundi, ma soprattutto il rapporto di fiducia tra popolo e potere, tra le classi sociali più povere e il presidente.

A questo punto rimane da capire cosa potrà succedere: l’esercito è infatti diviso tra i golpisti, che affermano di non volere il potere per sé, ma di lavorare per «la ripresa del processo elettorale in un ambiente corretto e pacifico», i sostenitori del presidente e coloro che vorrebbero un regime militare vero e proprio, come il capo di stato maggiore. Il timore di una nuova guerra civile è così forte che i paesi africani e occidentali si sono trovati nell’impasse di condannare allo stesso tempo il colpo di stato tanto e il tentativo di distorcere la costituzione a proprio vantaggio da parte di Nkurunziza.

Secondo Celestine Nyedetse Ndayizeye, presidente di Pronabu Onlus, associazione con sede in Italia che si occupa – anche grazie a fondi Otto per Mille – della protezione e promozione della donna e del suo ruolo in Burundi, il momento di tensione politica «è una bolla destinata a scoppiare», a patto che «non rientrino forze esterne, come il Ruanda e la Tanzania, perché in questo caso potrebbe essere più lunga». Ciò che conta, però, è il messaggio, chiaro e forte, mandato dai burundesi: la democrazia non è una persona, ma il rispetto di un sistema che funziona.

Foto di European Commission DG ECHO via Flickr | Licenza CC BY-ND 2.0