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La solitudine di chi dice no

Nella mattina di mercoledì 8 luglio il primo ministro greco Alexis Tsipras è intervenuto al Parlamento europeo di Strasburgo per spiegare le posizioni del proprio paese dopo il voto nel referendum di domenica 5. In un discorso che si può ritenere più politico che economico e che ha entusiasmato in particolare la sinistra dell’emiciclo, Tsipras ha detto tra le altre cose che «l’austerità è un esperimento che non ha avuto successo», che la Grecia è stata il laboratorio di quell’esperimento e che la maggioranza del popolo greco non ha avuto altra scelta «se non cercare di liberarsi da questa strada senza uscita, speranza che ha espresso con il mezzo più democratico possibile». Ma è davvero così? Ne parliamo con Fabio Sdogati, docente di Economia internazionale presso il Politecnico di Milano e membro del Gruppo di Studio del CNR su Sviluppo Economico e Economia Internazionale.

È difficile mettere in ordine la grande quantità di informazioni e notizie relative al caso greco in questi ultimi giorni, ma vorrei partire da una storia che si conclude, quella di Yanis Varoufakis come ministro delle finanze, sostituito da Efklidis Tsakalotos. Come si è comportato in questi cinque mesi? Poteva andare in modo diverso?

«Lunedì ho mandato un messaggio pubblico di ringraziamento al professor Varoufakis, e l’ho ringraziato sia per quello che ha fatto dal momento in cui è diventato ministro sia per il fatto di essersi dimesso, perché in entrambi i casi ha mostrato professionalità importante e dedizione a una convinzione profonda che è quella che l’austerità uccide, non solo i greci. L’austerità uccide tutti. Comunque non è vero che non fosse gradito nei gruppi di contrattazione in quanto antipatico. Quello che non andava bene di Varoufakis è il fatto che denunciava, e denuncia ancora, una cosa nella quale io credo, non da oggi ma dal 2008, sulla quale scrivo da allora, e cioè che il nostro problema vero non è né Varoufakis né la Grecia: la Grecia esiste perché esiste l’austerità, una scelta politica che io chiamo “fetida” e che venne fatta 6 anni fa per differenziarci in una maniera importante dagli Stati Uniti. Questo è importante: Varoufakis non è il ministro delle finanze greco, è uno dei 19 ministri delle finanze europei, l’unico che denuncia i guasti drammatici delle scelte austere».

Tuttavia, non si può parlare della questione greca soltanto guardando agli ultimi giorni, e qui si impone una riflessione diversa: gli Stati Uniti, che da sempre consideriamo la patria del neoliberismo, quando si trovati ad affrontare una crisi hanno reagito con politiche espansive, keynesiane. Perché l’Europa ha invece deciso di affidarsi al rigore?

«Ho vissuto, studiato e lavorato negli Stati Uniti per quasi 12 anni, dal 1979 al 1990, e una cosa l’ho imparata: gli Stati Uniti sono un paese di gente seria. Nel novembre del 2008 ci fu un G20 a Washington. Era ormai chiaro che l’economia stava entrando in una fase recessiva potenzialmente devastante e si decise al G20 di chiedere al governo cinese di aumentare il proprio deficit. Il governo cinese lo fece per 576 miliardi di dollari, quindi spese soldi che non aveva per stimolare l’economia propria e l’economia mondiale. Tre mesi dopo, a febbraio 2009, quando il presidente Obama era stato insediato da poche settimane, il Congresso degli Stati Uniti, repubblicani e democratici insieme, votarono a favore di un aumento del deficit federale per 756 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti la scelta fu diminuire le tasse e aumentare le spese. Ma perché parlo di serietà? Sta nel fatto che un accordo si trovò quell’anno, si trovò anche in quello successivo, quando il deficit venne aumentato di nuovo di 858 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti non è una questione ideologica ma economica. Ci sono pochi modi per far ripartire l’economia quando è in stallo, ed era evidente a tutti, al G20 prima e negli Stati Uniti poi, che bisognava usare la spesa pubblica. In Europa no: si diede da intendere al pubblico che il problema fosse un problema di debito eccessivo, ma non è vero. Quello che è vero è che la crisi del 2007–2008 era una crisi bancaria, delle banche private, che negli Stati Uniti venne trattata come tale. Il governo degli Stati Uniti impose a certe banche di comperarne certe altre sulla base della logica per cui «avete combinato un disastro e adesso dovete aiutare a ripararlo», ne chiuse delle altre, come Lehmann Brothers, che non fallì, ma venne chiusa, e infine nazionalizzò AIG. Si nazionalizzò per salvare l’economia.

Il punto fondamentale è che l’ideologia asfissiante dell’austerità ha causato il problema greco, che esiste perché esiste la scelta austera, che fu una scelta prettamente ideologica, fatta da Merkel, Sakozy, Monti, da cui la statura di Varoufakis, che è l’unico che ha portato una posizione con un respiro teorico e politico tale da non essere replicato da nessun altro in Europa».

Austerity che sembra non funzionare, visto che a distanza di 6 anni dal primo piano di aiuti la Grecia è ancora al punto di partenza. Abbiamo forse anche un problema di leadership europea e di coraggio nel cambiare “ricette”?

«È in atto una transizione tra gli economisti, quelli onesti ovviamente , verso la politologia. Quando guardo i grandi economisti, come Paul Krugman, che tutti conoscono, oppure Joseph Stiglitz, ma anche colleghi irlandesi, francesi, sicuramente anche molti americani, vedo che stanno abbandonando l’approccio economico per arrivare all’approccio politico.

Nel 2003 la Commissione europea chiese al consiglio dei capi di stato e di governo maggiori poteri per mettere sotto controllo i conti pubblici dei paesi membri. Non si votò mai su quella richiesta, perché ci fu un paese che impose il veto: quel paese era la Germania. La Germania è responsabile per il mancato ulteriore controllo sui conti pubblici dal 2003 in avanti. Questa fu una scelta nazionalista, antieuropea. Da allora cos’è cambiato? È cambiato che il sentimento antieuropeo si è diffuso a tutti i governi.

Sino al 24 gennaio di quest’anno, quando Syriza con la sua coalizione ha vinto le elezioni in Grecia, avevamo 18 governi che sull’Europa tenevano posizioni di destra su 18. Avevamo insomma uno schieramento tutto antieuropeo, uno schieramento di governi che volevano neutralizzare le spinte europeiste degli anni Ottanta e Novanta, quelle fatte dai grandi come il cancelliere tedesco Helmut Kohl. Volevano neutralizzare quelle spinte per riappropriarsi di poteri da gestire a livello nazionale, ritrasferendo potere dall’Europa ai governi nazionali».

Rivendicando la propria sovranità, insomma.

«Esatto, ma la sovranità dei pezzenti, che non capiscono che stanno danneggiando drammaticamente il proprio popolo, quello stesso popolo che li elegge, perché nella misura in cui torniamo alla dimensione nazionale delle cose perdiamo automaticamente di competitività sui mercati. Nessuno stato–nazione è più in grado di competere a livello internazionale, e oggi dire Germania è come dire Basilicata, Toscana, Lombardia: sono cose piccole, invisibili, irrilevanti e inutili in chiave globale, senza potenza competitiva. Del resto questo ce l’aveva già spiegato Adam Smith nel 1776, 250 anni fa. Adam Smith diceva che “è la dimensione del mercato che genera aumenti di produttività”, ed è per questo che è stata fatta l’Europa dal punto di vista economico. Anche in modo impressionistico, con gli Stati Uniti e con la Cina si compete se si è Europa.

La speranza ora è che si torni a una spinta europea, ai valori fondamentali dell’Unione, al di là del fatto economico. Del resto è scritto nei trattati che l’Unione europea è un fatto anche di solidarietà, com’è nel concetto stesso di unione. Per fare un esempio terra–terra: se mia moglie non sta bene io lavo i piatti, se non sto bene io i piatti li lava mia moglie; questo valore di unione e comunità è andato perduto.

Ci sono alcuni esponenti del “pensiero debole” che sostengono che quella che si combatte oggi sia una battaglia tra protestanti e cattolici, per cui i cattolici vorrebbero cancellare i debiti e ricominciare tutto da capo perché sono cattolici, mentre i protestanti vorrebbero invece imporre il loro tipico rigore. Sono bugie, questa non è una guerra di religione, è una guerra per la redistribuzione del reddito, da chi lavora verso chi ha rendite finanziarie. Punto. Tutta la letteratura, anche quella pubblicata dalle banche, dagli istituti finanziari, lo fa capire chiaramente. Quindi irrido a chi vuol darmi a intendere che stiamo subendo una guerra di religione. Non è vero. Stiamo subendo una scelta politica e ideologica unilaterale fatta da persone che non hanno nessuna legittimazione democratica, perché Merkel, così come Renzi, sono legittimati democraticamente nel proprio paese, ma non hanno nessuna legittimazione democratica a governare l’Europa. Questo è molto importante da capire, lo subiamo, non possiamo fare altrimenti, speriamo che quello che oggi è un 18 a 1, diventi presti un 17 a 2, e poi piano piano torneremo a parlare di Europa».

Probabilmente la risposta sarebbe quella di dare ancora maggiori poteri all’Europa e ai suoi cittadini. Ma torniamo in Grecia. Al di là di quali saranno le decisioni specifiche, si apre ancora una fase di austerity, la terza. Quali conseguenze potrà avere? Penso soprattutto a quelle sociali.

«Feci un intervento rispondendo a questa domanda il 10 aprile 2014, e la mia posizione da allora non è cambiata, sono passati 15 mesi: la Grecia non c’è più.

La Grecia ha una quantità di popolazione sotto il limite di povertà che fa paura, un terzo o un quarto della popolazione, mentre tutti i giovani aspirano ad andarsene e molti se ne sono già andati. Inoltre non c’è più una struttura pubblica perché è stata distrutta dai sostenitori dell’austerità, i quali volevano ridurre il peso del settore pubblico. Per capirci, fino al 2008 il primo giorno di scuola tutti gli studenti di ogni ordine e grado in Grecia trovavano sul banco i libri che avrebbero usato in quell’anno scolastico; da allora invece migliaia di insegnanti di buona volontà cercano di duplicare i testi e distribuirli ai figli delle famiglie più povere, che sono circa un terzo ormai.

La Grecia non c’è più: dobbiamo capire che questa è un’unione, e che quindi le responsabilità vanno distribuite anche quando si parla di debito. Nel caso europeo ci si è occupati molto bene del creditore, attraverso la troika ci si è comprati il debito dalle banche liberandole da un peso. Ora però bisogna liberare anche il popolo greco da questo peso. Quest’idea per cui il debitore è in colpa è incomprensibile e inaccettabile, dal punto di vista economico e dal punto di vista etico».

Foto: “2007 07 16 parlament europejski bruksela 42” di Alina Zienowicz Ala zOpera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.