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La resurrezione: una marcia in più che dà motivazioni

Dieci o forse quindici anni fa l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, rivolgendosi al mondo del volontariato, fece un’affermazione: in questo campo, «i cristiani hanno una marcia in più». Se avessi potuto discutere con lui, gli avrei chiesto se intendesse questa «marcia in più» come una sesta marcia, per una velocità massima ancora più elevata, oppure come una marcia «ridotta», quelle dei fuoristrada o dei camion, che consentono di mettersi in moto su un terreno accidentato: fango, neve, ghiaia. Là, insomma, dove gli altri non riescono a trovare l’abbrivio per partire. Questo potrebbe essere un modo di intendere la resurrezione, come è risultata dall’impegnativa Giornata Miegge» del 21 agosto, organizzata a Torre Pellice come al solito dal Centro culturale valdese (Ccv) e dalla segreteria del Corpo pastorale all’antevigilia del Sinodo. Un concetto, anzi «il» concetto fondamentale attorno a cui ruota ogni possibile teologia, visto come «spinta motivazionale» per la strutturazione ma anche per la vita della fede di ogni credente.

Dalla «Giornata» di due anni fa, ha spiegato Davide Rosso, direttore del Ccv, venne l’indicazione di orientare le successive edizioni verso alcuni concetti cardine: così è già stato l’anno scorso (tema: il sacrificio vicario). L’ordine dei lavori aveva una sua precisa logica: due interventi di natura teologica la mattina (Eric Noffke e Cristina Arcidiacono) e poi uno sguardo su come due operatori sociali (nel settore dei giovani e in quello dell’educazione) possano portare la speranza nei loro luoghi di lavoro, dove si ha a che fare con la sofferenza delle persone ma anche con le loro incertezze, ansie e speranze.

Ripercorrendo vari testi biblici, partendo dalla Genesi per arrivare al Nuovo Testamento ma passando anche per il primo Enoch, Noffke ha spiegato come il concetto di resurrezione appaia in origine come estraneo all’Antico Testamento: alla fine del primo racconto della creazione compare la morte, e… non c’è nulla di male né di che stupirsi. Ciò che la provoca è in genere l’agire umano, la morte non è imputabile al Dio creatore. Solo successivamente farà comparsa l’ipotesi di «poter aspirare» a una vita dopo la morte. Perciò ci chiediamo se il testo di Daniele 12 («Molti di quelli che dormono nella polvere si risveglieranno; gli uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna e per una eterna infamia») nasca inaspettatamente o se risponda a un’interrogazione che si andava facendo strada nell’evoluzione della cultura. Certo, Paolo interpreterà poi retrospettivamente senza mezzi termini il significato della caduta e della cacciata, e dunque della mortalità umana: il peccato di Adamo ne è all’origine, solo l’intervento di Cristo potrà ristabilire l’originaria immortalità; ma quello che più conta per il credente, intanto, è che la vita di chi abbia incontrato Cristo, è già una vita da risorto, è già rinnovata.

La pastora Cristina Arcidiacono si è posta alcune domande: che cosa c’è nella Bibbia prima della resurrezione di Cristo? In che modo il linguaggio biblico affronta la resurrezione stessa? Una ricognizione in alcuni testi neotestamentari mostra che esiste una pluralità di linguaggi a proposito della resurrezione, e fra questi linguaggi spicca quello che, paradossalmente, fa riferimento all’assenza, l’assenza del corpo di Cristo dal sepolcro –. In ogni caso i testi biblici propongono diversi aspetti, corrispondenti a diversi significati della vita quotidiana, dell’idea di resurrezione: rialzarsi (detto di Lazzaro), svegliarsi: ci sono già nel ministero di Gesù le anticipazioni di quella che sarà la sua resurrezione. Dio si propone come un Dio dei viventi: e allora forse l’indicazione di Calvino sul disprezzo della vita attuale (III libro dell’Istituzione) punta svincolare la nostra vita da una concezione mercantile: quella futura sfuggirà a ogni monetizzazione, e l’indicazione può servire a rivalutare la nostra vita di oggi.

Samuele Pigoni, operatore nei servizi della Commissione sinodale per la diaconia rivolti ai giovani (Giovani e territorio), ha delineato un quadro assai problematico di come la crisi incida sulla società di oggi, suscitando precarietà e incertezza negli individui: così prevalgono, nella società, le forze che dividono gli individui gli uni dagli altri. Diventa sempre più difficile vedere realizzate le premesse della modernità, secondo cui il singolo può rendersi protagonista di una modifica del proprio status. Il presente mangia il futuro e a uomini donne è richiesto non solo di «saper essere e saper fare», ma soprattutto di «saper cambiare», adattandosi a un mercato del lavoro e a condizioni di lavoro (tecnologie, ma non solo) in continuo cambiamento. «La Resurrezione letta con la lente del cambiamento – ha concluso Pigoni – sembra indicare che non è possibile cambiamento reale, sostanziale vittoria sui legami della morte e le difficoltà della vita, se non grazie a un di meno di sicurezza per un di più di innovazione, un di meno di autorità per un di più di relazione».

Simone Lanza, insegnante e pedagogista, ha chiarito come l’epoca contemporanea sia appiattita sul presente: il futuro è visto come una minaccia anziché come il portatore di un possibile progresso. Parallelamente a questo fenomeno, avviene anche che i valori del passato non riescano più a spiegare il presente, e diventa quindi molto difficile fare educazione: assistiamo così alla perdita di cognizione sull’autorità e l’autorevolezza, genitoriale e non solo. La resurrezione, anima e «spinta» per la nostra fede, è proprio una proiezione nel futuro: e a dispetto di ogni considerazione sulla cultura contemporanea, proprio bambini e bambine sono personalmente gli annunciatori di futuro su cui dobbiamo contare.

Il dibattito ha evidenziato il gradimento per la scelta del tema e la sua articolazione, che pure ha portato qualcuno a interrogarsi in proposito: la resurrezione fonda la fede e dunque tutta la nostra esistenza. Per conseguenza qualunque ambito di attività umana, e in particolare le attività che hanno a che fare con le persone e non con le cose, può partire da questa consapevolezza, come una marcia «ridotta», dove altri (politica, spiegazioni del mondo, ideologie) non riescono a partire: a condizione di saper tradurre il messaggio della resurrezione in una pratica di vita che abbia come orizzonte la speranza e la capacità di annunciarla agli altri.