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Il castello di carte di Lampedusa

Moses (*) è eritreo, è arrivato più di un mese fa, il 5 dicembre, a Lampedusa, ed è stato portato all’interno dell’hotspot insieme ad altre 250 persone. L’ex centro di prima accoglienza ha la funzione di identificare e smistare i migranti nel più rapido tempo possibile: ma cinque settimane cominciano a essere troppe «un mese e sette giorni», dice Moses con precisione, segno di una crescente impazienza e incertezza sul proprio futuro. «La vita nel centro non è semplice – racconta – il Governo Italiano ci sta obbligando a lasciare le impronte digitali, ma non è qui che voglio restare»: Moses ha ben chiaro il regolamento di Dublino, e sa che essere identificato in Italia significa veder allontanarsi la possibilità di raggiungere la sua famiglia in un altro paese d’Europa. Per questo nelle settimane scorse, insieme ad altre centinaia di migranti, ha manifestato per le vie di Lampedusa; una «dimostrazione», specifica lui: come quelle di altre persone che pochi giorni fa hanno fatto uno sciopero della fame all’interno dell’Hotspot. Moses racconta che i migranti aspetteranno ancora alcuni giorni per vedere se ci saranno novità, ma la prospettiva è quella di continuare a far sentire la propria voce.

Alberto Mallardo dell’Osservatorio Mediterranean Hope della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia ha visto come l’isola di Lampedusa sta vivendo queste settimane di proteste. Una situazione che mostra giorno dopo giorno cosa sia realmente l’hotspot.

Qual è la vostra fotografia, come Osservatorio?

«Nell’hostpot di Lampedusa sono presenti 250 persone, ferme perché rifiutano l’identificazione. Questo è un paradosso, perché sono in maggioranza eritrei e rientrerebbero nelle quote fissate la scorsa estate dai vari paesi europei per il ricollocamento. Una volta lasciate le impronte queste persone dovrebbero essere trasferite in varie nazioni europee in base anche ai loro legami familiari. Al momento i dati dicono che solo 190 persone sono state coinvolte in questo processo. Soprattutto si sente l’incertezza sul futuro di chi oggi è a Lampedusa: molti hanno parenti o amici in Europa, ma nessuno può garantire loro che potranno andarci. Il Portogallo per esempio è una meta proposta dagli operatori del centro, perché ha completato le strutture di accoglienza, ma nessuno di questi ragazzi ha il desiderio di recarsi lì, non avendo nessuna rete o conoscenza».

E i migranti che non hanno diritto alla protezione?

«Esatto, stiamo parlando dei profughi, ma non dobbiamo scordarci di tutte le persone che non rientrano in questo programma dell’Ue. Sappiamo che vengono trasferite in Sicilia e ricevono un provvedimento di respingimento differito, che intima loro di allontanarsi dal paese entro 7 giorni, partendo da Fiumicino. Ma in realtà queste persone vengono abbandonate a loro stesse in Sicilia e da lì entrano nella clandestinità e precarietà. Un meccanismo che non funziona».

La protesta dei migranti è stata importante: sta cambiando qualcosa in Lampedusa?

«Siamo rimasti colpiti dalla compattezza delle persone ospitate nel centro, che hanno deciso di continuare la protesta, anche dopo che 50 di loro sono state trasferite, 7 delle quali senza lasciare le impronte. Sappiamo però che successivamente sono state costrette a essere identificate in Sicilia. Ciò che chiedono è molto semplice: informazioni chiare e certe, che sembrano non arrivare dalle autorità nazionali o europee. Siamo in una fase di prova di questi hotspot, ma nessuno saprà cosa accadrà domani».

La sindaca Nicolini ha chiesto di tornare indietro sull’hotspot, dicendo che è uno strumento inefficace: cosa ne pensa?

«Sono molti mesi che l’associazionismo siciliano e nazionale critica fortemente questo sistema, ed era evidente da ottobre che sarebbero emerse criticità serie legate alla gestione dei migranti. Ora la sindaca è arrivata alle stesse conclusioni, e ne siamo felici. Speriamo che questa sua richiesta venga ascoltata. Inoltre dobbiamo capire come risponderà l’Italia: da un lato le autorità saranno legate agli accordi presi con l’Ue, dall’altra dobbiamo considerare i risultati effettivi prodotti dal sistema. Se ad oggi solo 190 persone sono state ricollocate, è evidente che qualcosa non sta funzionando».

E gli isolani?

«Anche sull’isola auspichiamo che possa concretizzarsi l’apertura degli spazi di dibattito su questo tema, come abbiamo già fatto e proposto attraverso il Forum Lampedusa Solidale, in modo che la cittadinanza riacquisti voce. Le proteste vengono vissute in prima persona da chi Lampedusa la abita tutti i giorni e da chi teme per il turismo. Ancora una volta l’isola è utilizzata come porta e confine, ma non viene interpellata».

*nome di fantasia

Foto Radio Beckwith