schermata_2016-01-29_alle_11

Riforma o rifondazione

Accade ormai sempre più spesso che nei suoi interventi mediatici papa Francesco faccia ricorso all’espressione: «ecclesia semper reformanda» in latino, o in italiano: «la chiesa va sempre riformata», è «perennemente in riforma». Si tratta, è noto, di una espressione caratteristica del protestantesimo, specie dell’ambito detto “riformato” riconducibile cioè a Zwingli e Calvino più che a Lutero.

Più che di una conversione al calvinismo di Bergoglio vien da pensare che si tratti di quell’atteggiamento classico nel cattolicesimo, che prima rifiuta e condanna le realtà a cui non ha dato origine, e, successivamente, le annette come patrimonio proprio, come è successo con la libertà di coscienza, l’ecumenismo.

In realtà il problema è più complesso ed è il caso che vi si ponga attenzione anche in previsione delle celebrazioni dell’anno prossimo per il centenario del 1517. Ci limitiamo qui ad enunciare alcuni punti di riflessione.

La Riforma (scritta ormai con la maiuscola), intesa come momento della cristianità occidentale, è idea recente, frutto della storiografia tedesca ottocentesca, di ispirazione hegeliana, che vedeva, a ragione per altro, in quei decenni una svolta epocale della storia dell’umanità; assolutizzando in qualche modo il concetto si faceva della Riforma un evento unico. Tale risultava anche quello che si sarebbe fatto a Trento, letto come una Controriforma, con carattere altrettanto assoluto.

In realtà il concilio tridentino, pur essendo in qualche modo condizionato dalla realtà protestante incombente, era, come sostengono gli storici cattolici, pienamente nella tradizione cattolica, della sua prassi di quella che, a giudizio di padre Yves Congar, uno dei teologi del Vaticano II, è la “vera riforma”, mentre quelle altre, dei valdesi medievali e degli uomini del Cinquecento, è la “falsa”.

L’idea che la Chiesa sia sempre identica a se stessa, mentre le “sette”, nate dallo scisma, vivono in perenne cambiamento, sostenuta da Bossuet nel suo trattato sulle “variations” del mondo protestante, fa parte dell’apologetica moderna: Roma essendo la verità, non ha bisogno di Riforma (con la maiuscola) ma è sempre in riforma, in rinnovamento, aggiornamento, perennemente creativa nella sua tradizione.

Alla luce di questa considerazione il carattere innovativo di papa Francesco va ridimensionato, non è moderno, e neppure rivoluzionario, come affermano i laici italiani, ma tradizionalissimo.

Questo è un secondo punto che merita riflessione: la cristianità medievale infatti, dall’ordine benedettino al papato di Gregorio VII e Innocenzo III, non è che un susseguirsi di riforme, ma questo vale in modo particolare per il Cinquecento. Gli anni in cui Lutero matura la sua riflessione teologica sono scanditi da continui appelli alla riforma “ai vertici e alla base” della Chiesa.

Alessandro VI (il Borgia!) progettò di istituire per questo una commissione, ma poi non emanò la bolla; alla richiesta dei camaldolesi di agire per purificare la Chiesa Leone X nomina una commissione che poi si dissolve, anche l’appello di Egidio da Viterbo in apertura del V concilio lateranense nel 1517, fa la stessa fine. Paolo IV, nel pieno della crisi, rinnova il collegio cardinalizio con la nomina di prelati di tendenza evangelica, e istituisce la Commissione de emendanda ecclesia, crea un gruppo di lavoro di cardinali per mettere ordine nella vendita dei benefici, cioè l’aspetto finanziario della Curia, ma tutto finisce nel nulla; si dovrà aspettare Trento nel 1545 e l’arrivo dei gesuiti per vedere le novità.

E nel frattempo che ne era dei “Riformatori” impegnati per il rinnovamento della vita cristiana? Non erano consapevoli di vivere il momento storico della “Riforma”, non solo perché mentre vivi i problemi dell’oggi non sei consapevole di fare la storia (chi tu sia stato lo diranno i posteri), ma anche perché il problema che li angustiava non era la riforma della Chiesa, e certo non immaginavano che li avremmo chiamati con quel titolo.

E questo è il terzo punto su cui merita riflettere. Lutero i suoi amici, collaboratori, discepoli, non erano interessati a restaurare, “emendare” la Chiesa; a loro parere non andava restaurata ma rifondata sull’unico fondamento sicuro: Gesù Cristo. Non si trattava di dare una rinfrescata alla facciata e cambiare gli infissi, rifare le scale e il sottotetto, ma ispezionare le fondamenta e quelle risultavano del tutto insicure, corrose dall’umidità e di materiale scadente. La Chiesa, quand’anche animata dalla miglior buona volontà, non può assumere un’altra “forma” (questo sarebbe ri-formare) di quella che ha perché solo la Parola, cioè lo Spirito di Cristo, può creare il nuovo nel mondo.

Dopo la sconfitta a Mühlberg nel 1547, gli ambienti luterani, principi e teologi, smarriti e confusi sembravano disposti ad un onorevole compromesso con la politica imperiale accettando alcune “riforme” nella linea di un cattolicesimo aggiornato; Calvino a nome dell’altra lettura, quella della rifondazione, prenderà posizione nel suo saggio Vero modo della pacificazione cristiana e riforma della Chiesa*. Esaminando i nodi teologici fondamentali della fede evangelica: giustificazione, sacramenti, idea della Chiesa, prendeva distanza molto netta dalla restaurazione riformista di Trento.

Il quarto tema di riflessione è il fatto che la Riforma non è solo il 1517 e le 95 tesi di Lutero, ma il Vero modo di riformare… senza il quale avremmo avuto non le Chiese evangeliche ma una cristianità tridentina con qualche innovazione. La pacificazione è sempre presente in certi ambienti luterani.

A tutto questo sarebbe il caso di porre attenzione l’anno prossimo. Sarà buona cosa rievocare la creatività e forse gli errori della Riforma del Cinquecento, di gran lunga più impegnativo e essenziale sarà interrogarsi su come dire la fede cristiana in Gesù Cristo nella società secolarizzata e fondamentalista di oggi.

*La si può leggere nel vol I delle Opere di Calvino pubblicato dalla Claudiana

Foto via Pixabay