push-pins-838898_1280

Le minoranze nell’Ungheria di Orbán

Nel 2015 l’Ungheria, di cui normalmente si parla poco, è finita spesso sulle prime pagine dei giornali, descritta come un paese sempre più chiuso e sempre meno disposto ad accogliere persone in fuga dai conflitti che segnano da alcuni anni il bacino del Mediterraneo. Dai fatti ungheresi dello scorso anno è emerso a più riprese un paese raccontato come un “monolite etnico”, un paese intento a difendere la propria identità dalla minaccia di invasioni straniere, anche se non mancano le eccezioni virtuose, come l’impegno della Diaconia luterana ungherese nei confronti dei profughi nel momento più acuto della crisi della rotta balcanica. Tuttavia, secondo Aron Coceancig, caporedattore per l’Europa centrale per la rivista East Journal e ricercatore sul tema delle minoranze a Budapest, «nell’Europa centro–orientale nessuno stato può definirsi uno stato nazionale puro».

Quindi, al di là dell’autorappresentazione, non parliamo di un paese monolitico?

«È vero, spesso gli stati si descrivono in questa maniera, ma per fortuna nascondono una grande ricchezza multiculturale, multilinguistica e multietnica. L’Ungheria è un paese che ha molte nazionalità al proprio interno, anche se dopo la prima guerra mondiale ha perso i territori più multiculturali, come la Transilvania, oppure i territori del nord che oggi fanno parte della Slovacchia, o ancora a sud con la Vojvodina. Però, nonostante questo, in Ungheria ci sono molte minoranze nazionali, e con la legge di tutela vengono riconosciute ad oggi 13 nazionalità».

La legge di cui parla, sulla tutela delle minoranze nazionali, è un’acquisizione recente?

«Questa legge è frutto di un lungo processo di dibattito all’interno della società ungherese, cominciato negli anni Ottanta, prima della caduta del comunismo, e poi approvata nel 1993. Ormai ha più di vent’anni, e ha garantito un livello di tutela abbastanza elevato, soprattutto se facciamo un confronto tra la situazione delle minoranze ungheresi e quella di altri paesi. Tuttavia c’è molto da fare, soprattutto a livello di applicazione della legge».

Una delle questioni più discusse è relativa alla minoranza romena in Ungheria. A maggio del 2015 le trattative tra il governo ungherese e quello romeno per la definizione di un quadro di diritti per le rispettive minoranze si erano interrotte per disaccordi su autonomia e riconoscimenti. Nel frattempo è stato compiuto qualche passo avanti?

«Purtroppo i rapporti fra Ungheria e Romania dal punto di vista diplomatico non sono facili. In Ungheria c’è una comunità romena, che non è molto numerosa visto che conta circa 30.000 persone, ma in Romania esiste una folta minoranza ungherese, che è pari al 6,5% della popolazione della Romania, quindi superiore al milione di persone. È un rapporto non proporzionato tra le due minoranze. Nel 2015 i rapporti tra Ungheria e Romania hanno toccato livelli abbastanza bassi, sia per questa mancanza di accordo sulla tutela delle due minoranze, sia a causa di problemi politici tra i due governi, quello di Budapest e quello di Bucarest. Oggi la situazione è migliorata soprattutto perché a Bucarest il governo è cambiato: il governo socialista di Ponta si è dimesso dopo i gravi fatti della discoteca Collectiv di Bucarest, e quindi ora in Romania c’è un governo indipendente, tecnico, che è riuscito a riattivare i canali diplomatici con l’Ungheria».

Il 2015 ha anche visto l’Ungheria alzare muri verso l’esterno. Nel rapporto con le minoranze nel paese la chiusura sempre più forte dei confini ha avuto delle conseguenze?

«La costruzione di muri è un dato molto negativo sotto diversi punti di vista. C’è però per esempio da dire che nel caso specifico dei rapporti tra Ungheria e Serbia, quando il governo ungherese ha deciso di costruire la recinzione, l’annuncio fu dato proprio a Budapest durante un incontro tra il premier ungherese Orbán e il presidente della repubblica serba, che fu molto contrariato ma che, nonostante questo, confermò i buoni rapporti col governo di Budapest. La recinzione è stata costruita, ma nello stesso momento i governi hanno aumentato i valichi al confine, quindi la sensazione di chiusura che si può ben vedere se si va sul confine non impedisce ai cittadini dei vari paesi dell’area di muoversi. La chiusura riguarda le persone che non hanno documenti, i clandestini, che vengono in Ue a chiedere di poter entrare come rifugiati politici.

Detto questo, rimangono delle questioni ancora insolute sulla tutela delle minoranze, però la situazione sta andando verso una normalizzazione».

La politica del primo ministro ungherese, Viktor Orbán, è improntata a una forte affermazione dell’identità cattolica. Questo riflette la composizione del paese?

«Il governo di Orbán si impronta molto sull’identità nazionale e su un legame forte con la religione cattolica. Va ricordato che Orbán non è cattolico: nasce in una famiglia calvinista, quindi ha una prospettiva religiosa anche abbastanza differente. Tuttavia, nel governo di Fidesz, che è il partito di maggioranza in Ungheria, c’è una forte presenza di cattolici, così come nel partito alleato, che è il Kdnp, il Partito Popolare Cristiano Democratico.

L’Ungheria è comunque un paese plurale, non solo dal punto di vista delle nazionalità, ma anche dal punto di vista religioso, perché per esempio i cattolici sono poco più del 51% nel paese, e le altre minoranze religiose presenti, come i calvinisti, i luterani, i greco–ortodossi e la folta comunità ebraica hanno un peso significativo. C’è anche un’importante parte del paese che continua a considerarsi laica o anche atea in percentuali abbastanza elevate.

Certo, il Fidesz, come base di consenso e anche come struttura di potere si è orientato sempre più negli ultimi anni verso un discorso fortemente nazionalista, a difesa dell’identità ungherese che viene vista in primo luogo grazie anche al contatto con la religione cattolica. Non per niente i rapporti con il clero cattolico ungherese e il Fidesz sono molto forti, e questo si è visto in modo molto forte durante la crisi dei rifugiati che l’Ungheria ha vissuto questa estate».

In che senso?

«È successo che nel momento in cui il Papa chiedeva un maggiore impegno da parte delle parrocchie locali, o comunque anche da parte del clero cattolico nell’aiutare i profughi, in Ungheria la chiesa cattolica si è mossa molto tardi, e anzi numerosi esponenti del clero hanno preferito seguire le indicazioni del primo ministro ungherese Orbán, attuando una politica di chiusura, piuttosto che seguire le indicazioni del Papa, e questo è un elemento interessante soprattutto dal punto di vista della religione cattolica, che mette il vescovo di Roma al primo posto. In Ungheria quest’estate la chiesa cattolica si è mossa con molto ritardo e anche con un certo imbarazzo».

È possibile che le politiche del governo ungherese si siano radicalizzate in senso nazionalistico anche per contrastare la crescita di Jobbik?

«Sulla scena politica del paese Jobbik ormai è costantemente al secondo o terzo posto, ha un grande successo soprattutto tra i giovani e sicuramente questo successo della destra radicale ungherese è fortemente legata a tradizioni religiose, all’idea di un’identità ungherese che viene espressa come opposizione nei confronti delle minoranze religiose nazionali, e dà spazio anche ai discorsi antisemiti o contro la popolazione rom, molto presenti nella società ungherese da diversi anni. Non si può dimenticare il fatto che lo spostamento di Fidesz su posizioni di chiusura su alcune tematiche abbia fatto in modo che ci sia stata una specie di rincorsa da parte di Orbán verso le tematiche portate avanti da Jobbik, tanto è vero che un sondaggio uscito giovedì nella Tv ungherese ha fatto vedere come Jobbik sia ormai da diversi mesi in perdita di consenso a favore del partito di governo».

Le varie minoranze ungheresi hanno delle voci significative di rappresentanza politica, quindi anche un atteggiamento diverso nei confronti delle migrazioni?

«Le minoranze ungheresi hanno voci anche abbastanza forti, molto ridotte però dal punto di vista numerico, quindi non hanno una valenza e una forza tale da farsi sentire. L’unica eccezione è la minoranza rom, che invece è abbastanza presente numericamente nel paese: nell’ultimo censimento sono stati registrati più di 300.000 rom, ma si pensa che siano oltre mezzo milione. È da ricordare che la prima parlamentare europea rom era appunto ungherese ed era del partito di governo Fidesz. Le voci delle minoranze quindi ci sono, ma sono sostanzialmente divise all’interno dello schieramento politico ungherese, e ci sono anche diversi casi in cui le minoranze sostengono il partito al governo».

Foto via Pixabay