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L’Egitto nello scacchiere geopolitico

Qaryouti, il caso di Giulio Regeni, giovane ricercatore con la passione per il giornalismo ucciso in Egitto, ha obbligato la stampa e la politica italiana a parlare del regime di Al Sisi in termini diversi da quelli ai quali solitamente siamo abituati.

«L’Egitto è sempre stato e rimarrà un tassello importante nello scacchiere internazionale, sia a livello geopolitico che strategico, e non solo per l’intero mondo arabo. Sempre che oggi si possa ancora parlare di mondo arabo. Un mondo che sembra essere diviso e lacerato sia politicamente che culturalmente. L’Egitto è stato l’emblema per moti paesi arabi satelliti di quel movimento culturale e politico che ha saputo disegnare scenari diversi e democratici, a partire da quella che viene chiamata “la rivoluzione del 23 luglio”, che nel 1952 per volontà di Nasser seppe trasformare l’Egitto in una Repubblica; un successo tale da saper ispirare molti altri paesi arabi e africani, tutti con la speranza di poter raggiungere la fine delle monarchie presenti e ottenere anche loro regimi repubblicani. Il Panarabismo e i risvegli sono ricordi del passato, oggi non rimane nulla di quelle ideologie, l’ultimo sogno è stato quello delle “primavere arabe”, finite tragicamente, come abbiamo potuto vedere. Oggi è difficile poter parlare di democrazia in seno al mondo arabo. Si preferisce spesso parlare di Egitto in termini diversi: di un Egitto stabile, piuttosto che affrontare il tema dei diritti civili e della mancanza di democrazia».

Qual è la situazione politica egiziana?

«Non voglio commentare la situazione politica attuale. Posso solo dire che nessuno ha veramente aiutato il mondo arabo a giungere a reali sistemi democratici. Il mondo arabo è l’unico che non ha mai goduto di aiuti in tal senso. Ne è la prova l’ultimo rigurgito popolare di ribellione delle “primavere arabe”, una rivolta vera e portata avanti da giovani e meno giovani, una rivolta per il futuro che chiedeva solamente pane e libertà. Nessuno ha voluto aiutare gli egiziani nella loro ricerca di libertà, di giustizia e democrazia. Invece, movimenti politici e altri che si dichiaravano “religiosi” hanno avuto l’ardire di cavalcarne il flusso dirottandone la rotta iniziale».

Eppure spesso sono stati disposti interventi militari per esportare la democrazia in quelle aree.

«La democrazia non può essere esportata attraverso l’uso delle armi. I processi democratici devono nascere in seno ai paesi, devono essere processi interni. Non si può negare a una popolazione di 400milioni di persone di poter avere il sogno di riuscire a cambiare i propri scenari politici. Ma oggi credo che la popolazione araba non sarà in grado di farlo, tantomeno con l’aiuto esterno se pensiamo a come sono andate le cose dalla guerra in Iraq sino alla situazione attuale in Yemen».

Eppure l’interesse, non solo europeo, per quelle aree geopolitiche è forte.

«L’Egitto è stato il primo prototipo di unità araba, strettamente legato alla Siria. Questo è un fatto, ma il fattore più importante riguarda gli interessi economici. Sono oltre cento le aziende italiane che operano in Egitto. Uno scambio commerciale che supera i 5 miliardi di euro, secondo i dati Istat recenti, e che è in esponenziale aumento e con un export di crescita di oltre i due miliardi».

Eppure in Egitto, secondo Human Rights Watch nel terzo anno di presidenza del generale Al Sisi gli ufficiali di polizia sono responsabili della scomparsa di molte persone e di violenze. Questo non inficia i nostri rapporti commerciali con l’Egitto?

«Approfitto di questa domanda per esprimere il mio cordoglio personale per il giovane ricercatore italiano Regeni. Quello che posso auspicare è che la verità venga portata alla luce e che il governo egiziano possa trovare il coraggio di indicare i responsabili e di processarli. Questo per amore della giustizia verso quel ragazzo e, credo, di dovuta amicizia verso l’Italia. Per quanto riguarda i diritti civili, le libertà personali e di stampa, credo che il problema non sia solo egiziano, ma che sia presente in molti paesi africani oltre che in tanti altri paesi arabi. Molta strada purtroppo dev’essere ancora fatta».

Images ©iStockphoto.com/Leonid Andronov