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Sognando l’Europa da Sarajevo

Lunedì 15 febbraio la Bosnia ed Erzegovina ha ufficialmente presentato al Consiglio dell’Unione europea a Bruxelles la propria candidatura per l’adesione e il conseguente allargamento dell’Unione. Per il paese, che nella memoria collettiva è segnato in modo indelebile dalla guerra degli anni Novanta che portò alla dissoluzione della Jugoslavia, si tratta di un passaggio importante, perché permette di riprendere un discorso interrotto nel 2008 e che sembrava essere finito su un binario morto.

Questo avvenimento, tuttavia, non ha avuto uno spazio molto significativo nel dibattito pubblico, stritolato tra le discussioni sui profughi che attraversano la cosiddetta “rotta balcanica” in fuga dalla guerra in Siria e Iraq e le ipotesi di uscita del Regno Unito dalla stessa Unione europea nella quale molti tra i paesi del Balcani occidentali stanno cercando di entrare.

Oltre alla natura simbolica dell’evento, che vede ripartire un processo che si temeva non potesse arrivare fino a questo nuovo passaggio, secondo Davide Denti, dottorando all’Università di Trento e collaboratore dell’Osservatorio Balcani e Caucaso, «è un atto importante per le istituzioni bosniache. Da una parte è un passo avanti, mentre dall’altro ci si chiede quali saranno le ricadute concrete».

Verrebbe da fare un po’ di ironia sul tempismo bosniaco: chiedere di entrare in Europa mentre la stessa si sta praticamente polverizzando sembra un controsenso. Secondo lei esiste questa contraddizione?

«Da una parte è un nuovo passo in un percorso lungo: si parla, per la Bosnia ed Erzegovina, di un’adesione che nelle intenzioni si concretizzerà nel giro di una decina d’anni. C’è molto lavoro da fare. Dall’altra parte, questa contraddizione è rilevata non solo dai bosniaci, ma anche dai britannici: alcuni parlamentari del Regno Unito, infatti, sono stati tra i più attivi nel lavorare sull’integrazione europea della Bosnia così come dei Balcani negli ultimi anni. Recentemente, presso la Camera dei Comuni di Londra un parlamentare laburista ha criticato i conservatori dicendo che la loro visione dell’integrazione europea prevede un’Unione con la Bosnia dentro e gli inglesi fuori».

Da parte bosniaca, quali sono gli interessi di entrare in Europa in questo momento?

«Da un certo punto di vista il percorso di integrazione europea della Bosnia, ripreso nell’ultimo anno e mezzo, è servito anche a tenere sotto controllo alcune dinamiche interne che invece potevano andare in direzione centrifuga.
Se andiamo a vedere per esempio le relazioni tra il governo centrale e la regione autonoma della Republika Srpska, quest’ultima aveva indetto un referendum che era quasi secessionista, con il quale si mettevano in discussione le competenze e l’autorità di alcune istituzioni centrali, come quella giudiziaria. Negli ultimi mesi, anche attraverso pressioni internazionali e il focus sul percorso di integrazione europea, questo tipo di dinamica è rientrato. Restano forti tensioni tra il livello centrale e i sistemi periferici in Bosnia Erzegovina e restano molti punti ancora aperti rispetto alla prospettiva che la Bosnia possa effettivamente iniziare i negoziati di adesione e possa un giorno diventare uno stato membro dell’Unione europea».

La complessa struttura istituzionale della Bosnia dopo gli accordi di Dayton del 1995 può essere un elemento problematico per il processo di adesione?

«Sì, anche solo per i negoziati stessi. La Bosnia è riuscita a negoziare e a far entrare in vigore quest’anno un accordo di associazione, ma si discute ora di come le autorità bosniache competenti su vari dossier possano parlare con una voce sola alle istituzioni europee nel momento in cui dovranno avviare i negoziati d’adesione veri e propri secondo i vari capitoli dell’Acquis comunitario. Il dibattito sul meccanismo di coordinamento è ancora aperto: per ora il governo centrale si sta imponendo su un modello secondo cui si prevede che tutte le autorità competenti allo stesso livello si ritrovino e consensualmente decidano di prendere una posizione comune sui vari dossier. Questa decisione non è stata ben accolta da parte della Republika Srpska, perché non era stata comunicata preventivamente. A questo punto non è chiaro cosa potrebbe succedere se il consenso non dovesse essere trovato».

La Bosnia arriva come penultimo nel percorso dei Balcani occidentali verso l’Unione europea. Ci sono altre adesioni, avviate molto tempo fa, come quella della Macedonia, che sono state bloccate finora da veti incrociati. Per la Bosnia ed Erzegovina è possibile prevedere una dinamica simile?

«Tra il caso macedone e quello bosniaco c’è una differenza sostanziale: la Macedonia era bloccata da fuori, dalla Grecia, mentre la Bosnia era bloccata da dentro. Le condizioni che l’Unione europea poneva a Sarajevo per andare avanti richiedevano il consenso tra i suoi gruppi politici, tra le sue diverse istituzioni a vari livelli. Questo consenso interno è quello che è mancato nell’ultimo periodo e che su tantissimi dossier continua a mancare. Probabilmente, però, Bruxelles aveva anche puntato troppo in alto sulle richieste. La ripresa del percorso di integrazione europea negli ultimi 18 mesi è anche legata alla decisione europea di passare dalle questioni costituzionali, che nell’ultimo quinquennio si ero mostrate ignifughe a ogni cambiamento, a questioni invece legate più all’economia e alla situazione sociale, che in Bosnia è molto grave, e su cui i leader politici e i cittadini bosniaci potessero avere un interesse molto forte».

Dal punto di vista europeo, invece, qual è la convenienza di comprendere al proprio interno la Bosnia ed Erzegovina?

«Da una parte il processo di integrazione europea è ciò che tiene i Balcani legati al resto del continente e all’Unione europea in questo momento, tanto a livello geopolitico in relazione alle tensioni in corso a est, in Ucraina, e a sudest, in Siria e Iraq. Dall’altra parte nell’identità stessa dell’Unione europea c’è la volontà di trasformarsi nell’incarnazione politica del continente intero, per cui avere un’Europa a cui mancano ancora delle parti continua a essere problematico.

La Bosnia, così come gli altri stati balcanici, ha potenzialità molto ampie da sfruttare, tanto sul piano economico e turismo, quanto su quello culturale».

Ci si può leggere però anche un percorso in funzione anti-russa?

«Sì e no. Nei Balcani in effetti esistono vari attori con forti legami con Mosca, tanto in Bosnia quanto in Serbia, soprattutto per quanto riguarda la politica estera. Per la maggior parte, tuttavia, queste relazioni non sono così antagonistiche come nell’ultimo anno e mezzo sono state dipinte.

Se prendiamo a esempio la Serbia, questa continua ad avere e relazioni importanti con Mosca, ma questo non le ha impedito di andare avanti nel processo di integrazione europea negli ultimi due anni. Può essere utile per certi attori politici della regione mantenere forti relazioni con Mosca anche come alternativa, ma va detto che Mosca non ha così tanto da offrire nella regione, e questo è diventato evidente per i politici balcanici con il fallimento del progetto South Stream: in quell’occasione, ma non soltanto, si è visto che la Russia non può proporsi nella regione come vera alternativa all’integrazione europea».

Nonostante tutte le difficoltà, interne ed esterne, la Bosnia ed Erzegovina riuscirà comunque a portare a compimento il suo percorso?

«Se tutto andasse bene diciamo di sì. Dieci anni fa si riteneva che il 2014 fosse nelle previsioni l’anno dei Balcani, però sono successe così tante cose negli ultimi dieci anni, e tante potranno succedere nei prossimi dieci, che dare una risposta non è possibile.

Bisogna vedere che tipo di Unione europea avremo tra dieci anni: probabilmente non sarà lo stesso tipo di Europa che c’è oggi e che c’era dieci anni fa. Sono occorse tante discussioni, per esempio, sul tipo di membership, e il recente accordo con Regno Unito lo dimostra. La cosa più importante è cogliere il fatto che questo processo rappresenta un’opportunità per i cittadini bosniaci di ottenere ciò cercano dalla politica, dalla capacità della politica di fornire servizi e di essere affidabile fino alla capacità delle istituzioni di guardare ai cittadini come persone invece che, come avviene oggi, come membri di un gruppo etnico-politico nazionale.

Se l’Unione europea riuscirà a spingere queste riforme in Bosnia, allora avrà vinto, almeno parzialmente. Se invece il percorso di adesione si rivelerà solo un momento per i politici per avere di nuovo un piccolo palco a Bruxelles, allora purtroppo non sarà cambiato nulla».

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