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Ciò che siamo chiamati a essere

Il recente efferato episodio di cronaca nera, il caso «Varani», vede tragicamente coinvolti tre ragazzi romani provenienti non dal degrado di periferie abbandonate allo spaccio e alla piccola/grande delinquenza, ma dall’agiato ceto borghese. Sui quotidiani di tutt’Italia e nei volgari talk-show televisivi si è svolto, e si sta ancora svolgendo, prima che in Tribunale, un processo mediatico che il padre di uno degli assassini (lontano da ogni tentativo di giustificare il figlio), nel suo blog, racconta così: «In questi giorni in cui la stampa ha fatto a brandelli la vita di tre famiglie colpite, ciascuna in modo drammaticamente diverso, si sono letti giudizi sommari, verità parziali o di comodo, usate espressioni dei tempi più bui della vita civile» (www.ledoprato.it). In televisione è passato il solito pantheon mediatico, squallido e assurdo, convocato con l’unica finalità di fare audience: psichiatri che diagnosticano per sentito dire, tuttologi che farneticano di «eterofobia», difensori fuori luogo della famiglia tradizionale genere «mulino bianco» da cui, peraltro, i tre ragazzi provengono.

Quest’Italia, prontissima a innalzare ghigliottine sulla pubblica piazza, ha radicata nel profondo un’idea molto sbrigativa di giustizia retributiva. Una giustizia che si presta come soluzione rapida per debellare il male di cui, però, affronta solo gli effetti senza curarsi minimamente delle cause. Siamo tutti bravi a fare i giudici al bar: il male è altro da me e io, che sono esente da ogni responsabilità, posso giudicare con estrema severità perché il delitto presenta l’aggravante della crudeltà.

Certamente, quest’episodio di raccapricciante violenza gratuita non trova in alcun modo una giustificazione; ma invece di avvertirlo come estraneo, certi di essere lontanissimi da tutto ciò, dovremmo invece chiederci seriamente: ha qualcosa a che vedere con me? Di fronte a episodi di tale aberrante bestialità è doveroso fermarsi e porsi questa domanda: ha quest’orrore qualcosa che vedere con me? Perché io, tu, noi, l’assassino, e la vittima viviamo di relazioni che si sviluppano e legano all’interno del gruppo sociale cui tutti apparteniamo.

E allora, di nuovo: ha qualcosa a che vedere con me questo mostruoso delitto? Se riusciamo a essere sinceri, dovremmo poter individuare una parte di nostra responsabilità nel fallimento umano di altri. Dove abbiamo fallito anche noi?

Credo che una risposta potremmo rintracciarla nella nostra incapacità a rovesciare la prospettiva corrente riguardo il senso della vita. La condizione psicologica di chi transita in questa epoca, di parole e fatti che si perdono nel vuoto, è quella di chi sa solo attendere dalla vita il significato della propria esistenza. Che cosa mi offrirà oggi la vita? L’occasione, ciò che capita, gioca allora un ruolo perversamente fondamentale; «l’occasione fa l’uomo ladro», recita un noto detto popolare. Ed è tragicamente vero. In questo modo siamo «vissuti» dalla vita, alla quale passivamente ci affidiamo chiedendole di darci sempre di più, di farci divertire, di offrirci sempre più occasioni per illuderci di essere attori di accadimenti che invece non riusciamo a governare e che possono pure travolgerci.

Il passo copernicano da compiere, riguardo la comprensione del significato della nostra esistenza, è capire che non ha alcun valore, anzi è dannoso, restare nella posizione di chi si limita a domandare alla vita di dare valore alle proprie giornate, è letale accomodarsi nell’attesa passiva di qualcosa che la vita dovrebbe darci. Se desideriamo uscire dall’«epoca delle passioni tristi» è bene che il nostro sguardo cominci a scorgere un «futuro-speranza», piuttosto che un «futuro-minaccia», magari iniziando proprio a capire, per poi insegnarlo, che ciò che davvero solo importa è ciò che la vita (la Vita per il credente) attende da noi: da me, da te, da noi. Perché è la V/vita che ci interroga, rivolgendoci, giorno dopo giorno, domande cui dobbiamo rispondere con il pensiero e con l’azione.

Questo è il passaggio del superamento dal semplice «essere» a ciò che siamo «chiamati a essere». Un passaggio che è trasformazione, una Pesach (la Pasqua ebraica)che è liberazione dalla causalità del destino, perché ascoltare la V/vita e risponderle, significa guadagnare la propria vita. Vivere diventa, così, avvertire la consapevolezza che siamo invitati a reagire con responsabilità a problemi fondamentali, e che siamo anche sollecitati ad adempiere compiti che la V/vita pone a ognuna, ognuno di noi.

Questo processo si chiama in «gergo» religioso di taglio evangelico: vocazione. Difficile, faticosa, dolorosa vocazione che passa per il deserto e per la croce. Il punto, dunque, mi sembra che sia, innanzitutto, domandare a noi stessi per primi se siamo capaci di un rovesciamento di prospettiva (conversione) che non intenda più la vita solo come una serie di casuali occasioni non solo da non perdere, ma dalle quali anche pretendere di essere ampiamente soddisfatti. E a seguire, se abbiamo aderito a questo rivolgimento di mentalità riguardo come e dove possiamo rintracciare il significato che per noi ha la vita, valutare con sincerità se siamo anche capaci di trasmetterlo nell’accompagnare il difficile percorso dei nostri giovani verso la maturità.

Non c’è alcuna conseguenza positiva che possa scaturire da un delitto del genere, ma forse una nuova chiave di lettura per il futuro, sì, ed è la comprensione che l’orrore riguarda tutti: me, te, noi, e l’acquisizione che solo abbassando l’indice che individua il colpevole (unico gesto che pensiamo ci riguardi), includendo nella riflessione dolorosa anche noi stessi, forse riusciremo, in un lavoro collettivo, a riportare al centro il vero valore, il significato profondo e vitale di una «vita piena e abbondante».

Foto di shironosov, ©iStockPhoto