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Il mosaico egiziano è più complesso di quel che sembra

Il 15 aprile molti cittadini egiziani sono scesi in piazza per esprimere il proprio malcontento nei confronti del governo di al Sisi. I manifestanti hanno protestato per il poco rispetto dei diritti umani nel paese, espresso soprattutto dalle violenze della polizia. Proprio oggi abbiamo appreso la notizia di un agente che ha ucciso una persona per una lite sul prezzo di un té. La causa scatenante della manifestazione del 15 è stata la cessione da parte dell’Egitto di due isole considerate strategiche all’Arabia Saudita, con la quale i rapporti sono sempre più forti. La popolazione ha paura di manifestare come in passato, per la violenza della repressione, ma anche perché teme di essere strumentalizzata dalle diverse forze in campo. Ne parliamo con la giornalista e arabista Elisa Ferrero.

Cosa è successo nelle scorse settimane?

«C’è stata una ripresa delle proteste, ma quella del 15 è stata definita la prima di stampo non islamista dopo la caduta di Morsi e la presa del potere di al Sisi. Va notato che è avvenuta mentre è ancora in vigore una legge anti proteste durissima, dunque chi ha partecipato ha rischiato il carcere e multe salatissime. In virtù di questa legge tantissimi attivisti sono tuttora in prigione. Una protesta piccola rispetto a quelle del 2011, 2012 o 2013 però molto significativa perché la paura è stata sconfitta dal malcontento e dalla rabbia causate da un evento che può sembrare minore: una goccia che ha fatto traboccare il vaso di molti malumori. La cessione di due isole all’Arabia Saudita, Tiran e Sanafir, che hanno un’importanza strategica militare e storica su cui c’è stata una trattativa di decine di anni che ha coinvolto Usa e Israele proprio perché il controllo di queste permette di chiudere il passaggio alle navi che vengono dai porti di Israele e Giordania. Di fatto i pareri sono discordi se queste isole sono saudite o egiziane, la questione è intricata e si riduce alla differenza tra proprietà e custodia: per alcuni l’Egitto le ha cedute, per altri le ha vendute in cambio di enormi vantaggi economici, visto che l’Arabia Saudita è oggi uno dei principali finanziatori del regime di al Sisi. L’Egitto, però, è molto nazionalista, e che sia proprio stato al Sisi a dare via queste isole con una trattativa che l’opinione pubblica non conosceva è visto come un tradimento. Il malcontento dunque è stato vastissimo, anche tra gli stessi sostenitori del governo. In una settimana c’è stata una nuova organizzazione sui social, sfociata nella protesta del 15 aprile. La polizia non ha represso le manifestazioni come al solito, ma solo con i lacrimogeni e con l’arresto di un centinaio di persone rilasciate il giorno dopo. Il fatto che l’Egitto finisca sotto l’influenza dell’Arabia Saudita non è un buon segno e non piace neanche agli egiziani, ma i soldi devono arrivare perché il paese rischia la bancarotta. Oggi ci sarà il segretario di Stato degli Usa Kerry in visita al Cairo, vedremo come si sposterà la bilancia delle relazioni internazionali».

La mobilitazione prevede di continuare?

«È già in programma una nuova manifestazione il 25 aprile, che anche per l’Egitto è una giornata di liberazione (del Sinai dall’occupazione israeliana) quindi fortemente simbolica. Tutti cercano di capire cosa succederà quel giorno e se la protesta si ingrosserà. Ci sono molte paure da parte della popolazione: per ora sono scesi in piazza i movimenti dell’opposizione più attivi, ma la popolazione in generale è ancora in stato di attesa. Il malcontento c’è ma la paura di manifestare c’è altrettanto: sia perché si ha paura che gli islamisti approfittino di nuovo di questa protesta per i loro interessi, sia perché finora non c’è una valida alternativa ad al Sisi. Chi chiede la caduta del presidente di fatto sfoga la rabbia, ma non ha un programma. Vedremo se sarà un palloncino che si sgonfierà subito o se sarà l’inizio di un nuovo movimento di piazza».

A parte le isole, quali sono le altre gocce di malcontento?

«Il problema dei soprusi della polizia è il principale, tutta la popolazione li subisce. Anche nel 2011 fu un elemento che portò in piazza milioni di persone proprio il 25 gennaio, giorno della festa della polizia. Anche adesso la questione dei diritti umani è all’ordine del giorno. Sicuramente anche l’aspetto economico, anche se un po’ in sordina in questo momento. Al centro ci sono diritti e libera espressione».

In tutto questo, come si colloca il caso Regeni?

«Vista dall’Italia, la vicenda Regeni sembra un problema di un regime brutale che se ne infischia delle pressioni internazionali per difendere sé stesso. Visto dall’Egitto, la situazione sembra molto più complicata: ciò che è sorprendente è che la presidenza e la sua leadership non siano ancora riusciti a trovare un capro espiatorio. Sembra cinico, ma sia che loro sappiano chi è stato sia che non lo sappiano, se al Sisi fosse un dittatore potente, avrebbe già trovato un modo di chiudere la faccenda trovando un colpevole. I fatti fanno pensare che il presidente non sia così forte come sembra e che vi sia un conflitto interno al regime, sotterraneo, molto forte. Anche lui teme una congiura interna, lo ha ripetuto spesso, e sui giornali si inizia a parlare di sostituire al Sisi con qualcun altro sfruttando anche la protesta popolare (motivo in più per cui la popolazione è titubante a scendere in piazza perché non vuole essere strumentalizzata). È difficile credere che Regeni sia stato ucciso per ordine della presidenza, ci sono troppi fattori che vanno contro la logica e contro i loro interessi, ma che uno dei tanti uffici, dei vari servizi di intelligence di polizia, abbia fatto una cosa del genere sfidando anche la presidenza è un’ipotesi plausibile. Se al Sisi troverà il colpevole e lo porterà a giustizia, aprirà un conflitto interno le cui conseguenze per il paese non si conoscono, oppure potrebbe sacrificare i rapporti con l’Italia e mantenere la coesione interna il più possibile, contando che per quanto sia importante il nostro paese, l’Egitto ha altre opzioni: la Francia, l’Arabia Saudita o la Russia».

Chi ha interesse a rimuovere al Sisi in questo modo?

«Ci sono varie ipotesi, in primo luogo si mormora Ahmed Shafi, l’allora primo ministro quando è scoppiata la protesta nel 2011, rivale di Morsi, che ha sempre sostenuto che le elezioni fossero truccate dall’esercito, poi fuggito negli Emirati Arabi. Ci sono stati scontri nei mesi scorsi tra lui è il presidente. Ci sono degli indizi, anche dalle intercettazioni fatte negli uffici di al Sisi. E la protesta di piazza si trova pizzicata in queste dinamiche. Pur chiedendo giustizia per tutti i soprusi, incluso l’omicidio di Regeni, la popolazione sa anche che c’è una lotta più alta, dalla quale sarebbe strumentalizzata. La richiesta di verità da parte dell’Italia va a inserirsi in questa dinamica».

Cosa pensa delle pressioni che ha fatto il nostro paese?

«L’Italia non è così forte da poter giocare la carta dell’interruzione delle relazioni diplomatiche e economiche; è stato annunciato di voler interrompere semmai quelle culturali, cosa disastrosa: sono le uniche relazioni che dovrebbero rimanere sempre in piedi perché non legano tanto i governi, quanto le persone, i pensieri e le idee. La posizione dell’Italia, insomma, mi sembra molto debole rispetto alla realtà».  

Foto By Jonathan RashadFlickr, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=13536206