572-img_2770

Lo sport come occasione di incontro fra i popoli

Lo sport come via alla crescita dell’individuo, come occasione educativa, come pratica di convivenza, là dove il mondo degli adulti presenta un quadro diverso e in una situazione a cui si guarda pensando sempre e solo al conflitto. Samuele Giannetti, 45 anni di origine a Pordenone, ebreo con la mamma di famiglia valdese, è vicepresidente e segretario del «Roma Club Gerusalemme‚ che non è solo un circolo di tifosi, ma ha dato vita a una scuola calcio; e soprattutto, nella città simbolo di popoli e fedi religiose diverse, promuove l’incontro e la crescita, insieme, di bambini ebrei e arabi (cioè arabi cristiani e arabi musulmani), bambini drusi, ragazzi etiopi scappati dall’Eritrea».

«Dopo il liceo – ci dice al telefono – ho soggiornato per un anno in Israele; poi sono stato sette anni a Roma dove ho vissuto la passione del tifo per la Roma, giocando anche sempre a pallone. Nuovamente in Israele, poi, mi sono ritrovato con altri a fondare questo club nel 1998, ed era il primo “Roma Club” di tutto il Medio Oriente/Asia. Nel 2008 abbiamo avuto l’idea di organizzare dei tornei di calcio per adulti e anche per bambini, che fossero aperti a tutti, proprio in questa realtà complessa, e dopo i tornei abbiamo avviato la scuola calcio, inizialmente con sette bambini: ora sono 150, e ci sono anche due classi di bambine; la loro provenienza, oltre che dalla città stessa e da Gerusalemme Est, fa riferimento ai villaggi più vicini intorno alla città: i ragazzi sono ebrei ma anche arabi con la cittadinanza israeliana, e palestinesi che non sono cittadini israeliani ma hanno passaporto giordano, anche se magari abitano nella stessa strada».

Il calcio quindi può avvicinare i popoli?

«Il calcio è per noi un mezzo, attraverso il divertimento, per conseguire dei risultati educativi: magari dalla nostra scuola non uscirà il “campione”, ma a noi importa di fare crescere i ragazzi nel rispetto reciproco, nell’amicizia soprattutto quando ci si confronta con diverse religioni, culture, anche colore della pelle; è più facile fare tutto questo con dei bambini, mentre spesso però sono gli adulti ad avere dei preconcetti che rendono difficile l’operazione [ma questo avviene, ahinoi, davvero in ogni città di qualunque paese, ndr]. Noi in ogni modo accogliamo tutti. A livello politico invece abbiamo qualche difficoltà con il ministro palestinese nell’organizzare degli incontri, non li favorisce certo: ed è un peccato, perché invece da parte delle famiglie dei bambini ci sarebbe questa volontà».

Anche il vostro staff dunque rappresenta le diverse provenienze?

«Sì, abbiamo sei allenatori: quattro israeliani che parlano ebraico e due arabi che parlano sia arabo sia ebraico in modo che si utilizzano anche le diverse lingue. Ci sono anche dei figli di italiani di seconda generazione, e a volte si parla anche italiano».

Uno dei punti qualificanti del vostro lavoro educativo è il blocco totale alla parolaccia…

«Abbiamo pochi punti fermi, ma su questi non si transige; diciamo no alla violenza verbale perché questa può condurre alla violenza fisica: e non è questione di vedere a chi sia rivolta la parolaccia, è un problema in sé. I bambini sanno che per quelle ore settimanali (da tre a sei-sette) in cui sono con noi c’è un codice di comportamento da rispettare, anche ovviamente nei confronti dell’allenatore. Siccome i bambini con il calcio si divertono, ci tornano volentieri e così si fa dell’istruzione su questi valori: alcuni vengono da situazioni sociali poco felici, ma si sa che qui ci sono delle norme da seguire; va notato peraltro che la violenza verbale non è necessariamente a sfondo razziale».

Che cosa dovrebbe essere il calcio per un ragazzino, per tutti i ragazzini?

«Io ho fatto la mia preparazione per conseguire il patentino di allenatore in Belgio e lì ho imparato che non si deve dare importanza al risultato prima dei 13-14 anni; più che tornei si organizzano happening dove oltre al calcio c’è anche musica e stare insieme; la pratica sportiva deve presentarsi come gioiosa, senza la pressione dei genitori. Dopo i 14 anni si può pensare all’agonismo, arrivarci prima può creare dei traumi in alcuni ragazzi non ancora abbastanza cresciuti».

Un’altra indicazione molto importante è quella relativa agli studi?

«Abbiamo fatto fare un viaggio a Roma a un certo numero di ragazzi, e in vista di questa opportunità abbiamo spiegato che serve avere dei bei voti a scuola: non vogliamo “strappare” i potenziali calciatori agli studi, che invece devono svolgere con profitto. Abbiamo fatto fare loro una settimana a Roma, con visita al centro della Roma Calcio di Trigoria, li abbiamo portati a vedere la partita di campionato della Roma, ma anche a visitare Palazzo Madama e incontrare il presidente del Senato Grasso, l’ambasciatore di Israele, la Comunità ebraica di Roma: un’esperienza, insomma, non solo sportiva».

Pochi giorni fa la Nazionale italiana ha giocato a Haifa contro la squadra di Israele nel torneo di qualificazione ai prossimi Mondiali: si sono registrate purtroppo delle forme di «tifo» ideologico molto brutte…

«Eravamo allo stadio proprio quella sera con 25 dei nostri bambini, ospiti della Nazionale italiana con biglietti offerti dal presidente della Federazione Tavecchio. Ebbene, proprio sopra di noi c’erano dei tifosi che hanno iniziato a fare il saluto romano fascista e avevano delle bandiere dallo stesso richiamo. La polizia ha portato via loro e le bandiere. Posso dire che invece noi avevamo uno striscione con una scritta in lingua inglese che esprimeva la nostra solidarietà alle vittime del terremoto di Amatrice».

Foto: www.asroma.co.il